Venerdì, circuito di Spa-Francorchamps. È in corso la seconda sessione di Prove Libere del GP del Belgio quando, d’improvviso, lo pneumatico posteriore destro a mescola media della Mercedes F1 W06 di Nico Rosberg esplode nei pressi di Blanchimont. Tanta paura (lì, si toccano i 300 km/h) ma impatto con le barriere scongiurato.
Domenica, 42° giro del GP del Belgio. Sebastian Vettel, al volante della Ferrari SF15-T ora gommata da Pirelli a mescola media, sta resistendo, con tenacia e freddezza, alla rimonta della Lotus E23-Mercedes di Romain Grosjean, provvisto anch’esso di gomme medie ma più fresche e assai più performanti. I due piloti sono in lizza per il 3° posto. Eau-Rouge, Raidillon, quindi il lungo rettilineo del Kemmel. In piena velocità, la posteriore destra della Ferrari esplode. Addio podio. Quanto seguirà è un susseguirsi di accuse, difese e polemiche.
L’incidente di Rosberg viene – a nostro avviso, sin troppo frettolosamente – liquidato dalla Pirelli in questi termini: nessun difetto o cedimento strutturale interno alla gomma, si è trattato di un danno (un taglio sulla superficie interna del battistrada, nello specifico) provocato da fattori esterni (detriti, ecc.). A breve, circolerà l’ipotesi – assai stiracchiata e poco credibile – secondo cui a determinare l’esplosione della posteriore destra di Rosberg (con tanto di filamento fuoriuscito dalla carcassa…) è una appendice aerodinamica longitudinale, posta sopra il fondo vettura e vicina alla ruota. I violenti trasferimenti di carico, secondo tale ipotesi, avrebbero realizzato deformazioni tali da far avvicinare, sino a toccarsi, la ruota all’appendice stessa. Poco credibile, riteniamo, perché suddetto danno causato dalla appendice incriminata avrebbe dovuto ripetersi: questa piccola deriva verticale longitudinale, infatti, è montata tanto sulla monoposto di Rosberg quanto su quella di Hamilton. Inoltre, considerando i tanti chilometri ultimati dalle due monoposto in questione (quindi, un reiterarsi delle condizioni di trasferimento di carico e deformazioni), i danni alla posteriore destra avrebbero dovuto ripresentarsi in più di una occasione. In ogni caso, la Mercedes ha verniciato le estremità delle appendici “incriminate” al fine di verificare eventuali strisciamenti del bordo posteriore della deriva sulla gomma. Non è stato riscontrato nulla di anomalo. Ciò, dunque, lascerebbe intendere che si è trattato di un cedimento dello pneumatico a seguito di altri fattori. Quanto occorso a Vettel (stessa tipologia di gomma, mescola media, e stesso pneumatico, il destro), infine, avallerebbe l’ipotesi della esplosione causata da altri fattori.
In sostanza, le ipotesi rispettivamente del taglio avanzata dalla Pirelli e del taglio provocato dalla deriva longitudinale appaiono verosimilmente inattendibili.
Ed ecco, allora, emergere in tutta la sua forza il “caso Vettel”. Questo episodio è il risultato di più ingredienti tecnici e sportivi. Analizziamoli.
Iniziamo dal principio, ossia dalle proposte e dalle disposizione della Pirelli, fornitore unico delle gomme in Formula 1. Il gommista italiano, pochi anni fa, aveva suggerito ai team – nonché di inserirlo nel Regolamento – di contemplare e rispettare alla lettera un numero massimo di giri. Il suddetto tetto massimo di giri, ovviamente, sarebbe variato a seconda della tipologia di mescola e del circuito. I team si opponevano a tale disposizione, ritenendola un freno alla possibilità di inventare e variare le strategie box. Secondo i team, il rispettare alla lettera il numero massimo di giri per ogni mescola avrebbe, inoltre, danneggiato le scuderie capaci di affinare ed ottimizzare – mediante il fine lavoro di cesello su erogazione motore, assetto, aerodinamica e così via – il degrado e l’usura degli pneumatici. Infine, avrebbe appiattito le strategie box (fenomeno quest’ultimo che, a conti fatti, si è comunque verificato, salvo logiche e piccole differenze).
La Pirelli, dunque, alla luce del rifiuto da parte dei team di vedersi imporre strategie e numero di giri per ogni mescola, può solo consigliare e suggerire ai team strategie d’uso dei propri pneumatici: numero di soste ad ogni GP, angoli di campanatura (questi sono spesso imposti), chilometraggio ideale (che coincide col numero di giri) e via dicendo.
A Spa-Francorchamps, dunque, gli pneumatici a mescola morbida (le cosiddette “option”) potevano percorrere – secondo le stime e i calcoli della Pirelli – un massimo di 13 giri, le medie (le cosiddette “prime”, ossia la mescola più dura portata via via in circuito, media o hard che sia), al contrario, palesavano un numero massimo di giri consigliato pari a 22 passaggi. Hamilton ha percorso due turni da 13 giri ciascuno con le soft e 18 giri con le medie, Rosberg ha effettuato due turni di 12 giri con le soft e uno da 19 con le medie. In generale. i piloti hanno effettuato un massimo di 23 giri con le medie. Vettel, al contrario, era già al suo 27° giro con tali coperture. E mancava ancora un giro alla bandiera a scacchi (gara sui 43 giri).
E dunque? Ebbene, riprendendo in mano la proposta – bocciata dai team – avanzata dalla Pirelli, le “prime” avrebbero dovuto percorrere al massimo 22 giri (pari al 50% della distanza gara), le “option” solo turni da 13 giri, pari al 30% della distanza. Alcuni piloti, tuttavia, hanno sforato il limite di giri “previsto” per le “option”, allungando il turno sino a 15-16-17 passaggi. In questi casi, le gomme hanno risposto bene all’incrementato stress.
Il pomo della discordia, pertanto, risiede in quei fatidici 27 giri percorsi dalla Ferrari di Vettel, colpevole, secondo la Pirelli, di aver optato per una strategia suicida: un solo pit-stop. La Pirelli aveva consigliato due o addirittura tre pit-stop. Al contrario, per Raikkonen, è stata scelta una strategia non “aggressiva”, optando, cioè, per due pit-stop: pochi giri effettuati su gomme soft – 11 – e 20 con gomme medie.
Che le gomme medie di Vettel, dopo 27 giri, fossero alla frutta è un fatto incontrovertibile: Grosjean, infatti, è stato in grado di azzerare facilmente e nell’arco di pochi giri il distacco che lo separava da Vettel. La bravura di Vettel e la bontà della Ferrari rispetto alla Lotus hanno consentito di rintuzzare la rimonta del pilota Lotus, ma il calo delle gomme montate sulla Ferrari era evidente, lampante.
La Ferrari, però, tanto con Vettel quanto con Maurizio Arrivabene, si difende e contrattacca. Il campione tedesco – arrabbiato nero – non usa mezzi termini, arrivando persino a liquidare come “cavolata” l’ipotesi della foratura (compresa la presunta foratura occorsa a Rosberg…). Arrivabene, dal canto suo, afferma che la strategia per Vettel ad una sola sosta era stata già pianificata e deliberata alle 11:00 del mattino. Inoltre, pare sia emerso un fatto: la telemetria Ferrari, circa i dati relativi allo pneumatico destro esploso sul Kemmel, non ha mai riscontrato alcuna anomalia (pressione, temperatura, ecc). Il “mistero”, dunque, si infittisce.
Da un lato, abbiamo una Pirelli che parla di strategia azzardata (27 giri con le stesse gomme a mescola media), dall’altro una Ferrari che, legittimamente, cerca di studiare e applicare strategie intese alla ricerca del miglior risultato in gara. Poche storie: la strategia ad una sola sosta della Ferrari, per Vettel, benché palesemente al limite, stava riuscendo alla perfezione, essendo stata in grado, ad appena un giro dal termine, di portare il campione tedesco sul terzo gradino del podio all’indomani di qualifiche assai deludenti.
Due posizioni, pertanto, inconciliabili: la Pirelli recita sino in fondo la parte del gommista senza macchia e peccato, la Ferrari, ribadiamo, legittimamente, ragiona ed agisce in funzione del risultato, operando, cioè, scelte anche al limite (ma che non mettono in pericolo, in modo avventato e gratuito, l’incolumità dei piloti) che massimizzino le prestazioni dei piloti.
Tuttavia, occorre porre nuovamente all’attenzione la ormai annosa questione circa gli pneumatici e la loro funzione intesa alla ricerca del sedicente “spettacolo”. La Pirelli produce – anche a costo di un negativo ritorno di immagine – ciò che il carrozzone della Formula 1 le ha commissionato di realizzare. Ossia, pneumatici che, di certo, non hanno nella durata la loro arma migliore. Le ragioni di questa folle scelta sono presto dette: secondo la FIA, i team, alcuni piloti (ad esempio, Grosjean, il quale auspica il ritorno a pneumatici ancor meno durevoli) e la stessa Pirelli (che, evidentemente, regge il diabolico gioco, e non potrebbe essere altrimenti…) i pit-stop creano “spettacolo”. Per aumentare il numero di pit-stop (anche 3 in gare di appena 300 km), è necessario ridurre la durata degli pneumatici. Soluzione diabolica che, potenzialmente, può incidere negativamente sulla resistenza stessa degli pneumatici agli stress meccanici e termici, più soggetti a degrado (scadenza delle prestazioni) e usura (il consumo fisico del battistrada).
Parliamoci chiaro: i malfunzionamenti degli pneumatici hanno accompagnato, accompagnano e accompagneranno la storia delle corse (molteplici le cause, dal difetto di fabbricazione alla eccessiva campanatura passando per l’uso intenso e così via), fanno parte del gioco. Tuttavia, la contraddizione appare evidente: in un periodo in cui si parla, nel bene e nel male, di sicurezza, bramare una Formula 1 schiava dei pit-stop “che-fanno-spettacolo” e di gomme sempre sul chi va là appena si oltrepassa la soglia – bassissima – di giri consigliati dal gommista risulta un gioco sufficientemente incomprensibile e difficile da digerire.
Non solo. Un buon gommista ed una sana categoria gestita sapientemente, anziché inseguire e promuovere competizioni in cui si fa a gara a chi effettua più pit-stop, dovrebbero (anzi, devono) incoraggiare la logica ricerca tecnologica, mirata alla realizzazione di pneumatici al contempo performanti e durevoli. Quella ricerca tecnologica che, fortunatamente, viene messa in atto nelle gare di durata, ove gli pneumatici possono durare diverse ore, assicurando, tuttavia, prestazioni notevoli e decenti sino al loro, logica, inevitabile fine vita (tutti gli organi soggetti ad usura hanno un chilometraggio limite).
La domanda, allora, è retorica: non sarebbe preferibile ritornare a pneumatici capaci di sostenere un’intero GP, non sarebbe preferibile ritornare a considerare il pit-stop (ormai dalla durata di un battito di ciglia, quindi insignificante anche da assaporare come atto in sé) una eventualità, un “imprevisto” anziché una quotidiana, prevedibile, generalmente standardizzata, tanto tediosa quanto molesta procedura? I Gran Premi ne gioverebbero enormemente, i team ne gioverebbero. Pneumatici in grado di durare di più – ma non a scapito delle prestazioni – favoriscono anzitutto la varietà di scelte di assetto (oggi, molti parametri sono consigliati, per non dire imposti, allo scopo di non stressare oltremodo i già delicati pneumatici), nonché favorirebbe la vivacità e la imprevedibilità delle gare stesse.
Ovviamente, come detto, le gomme continueranno ad esplodere, ma almeno nessuno – ad iniziare dal gommista – perderebbe la faccia. Le figure non edificanti, in stile Indianapolis 2005, possono e potranno ancora accadere, ma si tratta pur sempre di uno scivolone, ben lontani, dunque, dalle gomme endemicamente e volutamente poco affidabili e durevoli in vigore in Formula 1 negli ultimi anni.
Una Formula 1 in cui uno pneumatico a mescola media – non parliamo, pertanto, di eventuali mescole usa e getta super-soft da qualifica – può durare, a Spa, appena 20 giri non è credibile. Come non è edificante assistere alla danza dei pit-stop dopo appena 10 giri (in alcune occasioni, anche meno!) di corsa.
Le esplosive vicende che hanno animato il GP di Spa-Francorchamps, anno 2015, incarnano solo l’ultimo (ma non ultimo…) capitolo di questa gestione poco ortodossa degli pneumatici in Formula 1. Non finisce qui.
Scritto da: Paolo Pellegrini