C’era una volta…
“Un pilota!” diranno subito i miei pochi lettori.
No, amici, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di metallo.
Non era un pezzo di metallo qualsiasi, di quelli usati per produrre graffette, spille o punti da cucitrice, nossignore, ma non sarebbe nemmeno finito, che so, in un edificio avveniristico progettato da qualche archistar o su una nave da crociera di lusso. Sarebbe diventato un bullone. Un piccolo bullone. Un piccolo bullone che non sapeva di essere speciale. Ecco la sua storia.(1)
Ciao, mi chiamo RB12–FS–0663-02 e sono un bullone. Se avete smesso di leggere dopo il 12 perché il nome vi è sembrato troppo lungo, sappiate che sfondate una porta aperta: ho provato a spiegarlo al software che gestisce il magazzino centralizzato, la mia casa, ma mi ha risposto che “… 0010001011111000…” e, di fronte a una tale circostanziata rimostranza, m’è sembrato inutile insistere. Se volete potete trovarmi un nome più corto e amichevole, che so: Gianni! È un nome comune ma, del resto, sono solo un semplice bullone.
Ciao, mi chiamo Gianni e sono un bullone. Quando ero un giovane pezzo di metallo grezzo, quando, cioè, non sapevo cosa sarebbe stato di me, quale sarebbe stato il mio posto nel mondo, quando, insomma – come dite voi dei vostri ragazzi umani – non ero ancora né carne né pesce, ho sentito spesso ripetere che un insieme organizzato che si prefigge uno scopo è più della somma delle sue singole parti e che ogni singola parte concorre al raggiungimento di quello scopo non solo con le sue caratteristiche intrinseche, ma con quest’ultime sommate al valore della loro interazione con le altre parti. E che mai significherebbe – mi sono sempre chiesto – codesta accozzaglia di parole? Sono astratte, difficili, troppo lontane dalla realtà di un pezzo di metallo grezzo che aspetta di conoscere il proprio destino. Verrò fuso, tornito, fresato, levigato e infine lucidato, questa sarà la mia realtà e queste saranno le parole che mi riguarderanno.
Un giorno mi hanno portato in quella che sarebbe diventata la mia casa, una grande e luminosa azienda in un posto chiamato Milton Keynes. Ho sentito dire che Milton era il nome di un poeta e Keynes il nome di un economista, un accostamento, questo, abbastanza bizzarro, se ci pensate; aggiungete il fatto che l’azienda apparteneva a una fabbrica di bibite austriaca diventata famosa per sponsorizzare sport estremi – pazzi su macchine volanti, pazzi su moto da cross, pazzi su auto fatte di cartone … insomma, cosa da pazzi che divertono gli umani – e per due bei tori rossi sulla propria insegna. Altri bizzarri accostamenti, insomma. Mi hanno spiegato, però, che quella non era una fabbrica di bibite, ma una scuderia di Formula Uno. Una scuderia giovane che, in pochi anni, era arrivata a dominare il campionato più importante degli sport a motori, creando non solo una squadra vincente ma anche un ambiente stimolante dove allevare tecnici geniali e giovani piloti talentuosi, garantendosi così una permanenza sempre al vertice. Quindi, amici, se stavate pensando – male, come me – che degli Austriaci che fanno bibite non possono capire niente di tori rossi, figuriamoci di corse automobilistiche, avete commesso un grave errore di valutazione. Potete consolarvi perché non siete soli: mi dicono che molti di quelli che hanno sbagliato vivano in Italia, vestano preferibilmente di rosso e abbiano pagato molto caro questo errore.
E qui veniamo al punto: finalmente avrei saputo cosa ne sarebbe stato di me, quale sarebbe stato il mio posto nel mondo, ed ero, perciò, piuttosto emozionato. Con me c’erano altri pezzi di metallo e poi fibre di carbonio, cavi elettrici, schede elettroniche eccetera. Ah, c’era anche il mio amico software di gestione, ovviamente: è stato proprio lui a spiegarmi che sarei diventato un bullone, un semplice bullone. Ma come? Solo un bullone? Mi state prendendo in giro? Prima di arrivare qui sono stato esaminato in tutti i modi: pesato, scandagliato, analizzato … hanno perfino prelevato un campione dal mio corpo! Un gran sbattimento, se devo essere sincero, al termine del quale mi è stata data la grande notizia che non ero un pezzo di metallo grezzo qualsiasi, uno di quelli che finiscono per diventare graffette, spille o punti da cucitrice, nossignore, ma un signor pezzo di metallo, di elevatissima qualità e purezza, creato con le più avanzate tecnologie. Ero, quindi, destinato a un alto avvenire, come fare parte delle travi di un grattacielo oppure dei ponti di una nave da crociera, così credevo – povero illuso! – e ora mi si veniva a dire che sarei stato trasformato in un banale bullone? Che delusione!
Ho accettato il mio destino e sono stato tagliato, fresato, modellato, tornito, levigato e lucidato, proprio come mi aspettavo che accadesse, quindi mi hanno di nuovo sottoposto a centinaia di controlli di qualità e solo dopo che li ho superati tutti brillantemente hanno deciso di darmi un nome, RB12 eccetera – Gianni, per voi – facendomi diventare il bullone che sono. Cos’altro aggiungere? Luccicavo, avevo una bella silhouette e trovavo molto confortevole il cassetto in cui mi avevano riposto e adagiato, dopo avermi rivestito con una confezione fatta apposta per me. Mi piacevo, ero proprio un bel bullone, ma questa condizione mi stava ancora un po’ stretta, quindi cercavo di distrarmi osservando il lavoro degli umani della fabbrica. Così, un giorno, ho capito.
Mentre guardavo tutti quegli uomini muoversi attorno a me e lavorare con le loro linde divise blu, infatti, ho colto la grande passione che animava ognuno di quei piccoli gesti quasi rituali, una passione che brucia tutti quelli che scelgono di dividere la propria vita con il motorsport, dal primo dei piloti campioni del mondo all’ultimo dei magazzinieri. È una passione che diventa abnegazione, sacrificio, impegno e orgoglio, grande orgoglio, quando si è consapevoli che il proprio lavoro ha creato qualcosa capace di emozionare milioni di persone intorno al mondo, creando storie, prima che di successo, soprattutto di grande sport.
Osservarli ed entrare a far parte del loro mondo, fatto di cura maniacale di ogni singolo dettaglio, come lo spessore di ogni mia filettatura, vederli disperarsi se qualcosa non andava per il verso giusto e fare tardi per aggiustarla ma anche gridare di gioia tutti insieme guardando quelle due bellissime monoposto vincere e conquistare punti in pista mi ha finalmente spiegato il senso di quelle parole che mi sembravano vuote, astratte e prive di un vero legame con la mia esistenza di pezzo di metallo prima e bullone poi: un insieme organizzato, cioè la mia scuderia, che si prefigge uno scopo, che sia conquistare un punto iridato o vincere un mondiale, è più della somma delle sue singole parti, cioè di tutte le persone che vi lavorano a ogni livello, e che ogni singola parte concorre al raggiungimento di quello scopo non solo con le sue caratteristiche intrinseche, vale a dire i piloti con la loro velocità in pista o gli ingegneri con le loro soluzioni tecniche, ma con quest’ultime sommate al valore della loro interazione con le altre parti, cioè il talento del singolo vale ancora di più quando si somma al talento degli altri per raggiungere lo scopo comune, cioè vincere. Ho capito, quindi, che io, Gianni il bullone, valgo non solo per la qualità dell’acciaio di cui sono composto o per la precisione della mia filettatura, ma anche e soprattutto perché queste mie caratteristiche mi consentono di essere montato a una sospensione, un elemento importantissimo progettato per fare parte del telaio di una monoposto di Formula Uno, un telaio in grado di garantire vittorie, ricompensando il lavoro e la passione di tanti.
E di questo io, il bullone Gianni, sono fiero.
Ogni anno, una scuderia di Formula Uno come la RedBull Racing progetta, produce e ispeziona, assieme ai suoi partner, più di un milione di pezzi, dalle grosse sagome dello chassis fino al più piccolo bullone, tutti con la medesima cura, al contempo maniacale e affettuosa, per il dettaglio, affinché si raggiunga lo scopo comune: vincere e aggiungere capitoli avvincenti alle nostre storie di motorsport.
La Formula Uno è, dunque, quello sport nel quale perfino la storia di un semplice bullone racchiude emozioni. Ed è per questo che noi la amiamo.
(1) Incipit liberamente e temerariamente tratto da Le avventure di Pinocchio, di Carlo Collodi.