Del Gran Premio di Abu Dhabi 2010 ricorderò il bruciore di una sconfitta, un arrivo nel mucchio e la squadra migliore del campionato che sembra dimenticarsi di lui. Avrebbe dovuto vincere oppure piazzarsi un po’ più su, giocare meglio le carte della strategia, fare di più in prova, voglio dire: il titolo del mondo piloti era lì e lui, dei primi due che se la giocavano, era quello con la macchina migliore. Il problema era che quell’anno il titolo del mondo se lo giocavano in tre e vinse il terzo incomodo. Per quattro anni di fila.
Eppure otto anni prima era cominciata bene, con un quinto posto artigliato con la forza di una convintissima resilienza, con lui più ostinato del destino, di una gara assurda piena di ritiri e incidenti, di una Toyota arrembante e di una Minardi miracolata. Solo poi avrebbe pensato che quello là, nel 2008, su una Minardi chiamata Toro Rosso, ci aveva vinto una gara, ma allora gli interessava solo di essere arrivato a punti in casa, a Melbourne. La festa durò per giorni e attraversò un paio di continenti, portandosi dietro aspirazioni e promesse.
La promessa, però, non venne mai mantenuta. Dopo aver preso il volo un paio di volte di troppo, mandato a spasso qualche ruota senza il consenso del resto della monoposto, corso per più di un campionato con un kers a mezzo servizio – roba che se fosse capitata da un normale concessionario sai le proteste! – aver obbedito a malincuore a ordini di scuderia che però, a quanto pare, nessuno avrebbe mai dato, e aver sopportato un certo numero di colpi bassi dalla malasorte, a fine 2013 salutò con garbo e stile il Circus miliardario. L’era turbo-ibrida l’avrebbe vissuta a bordo di una Porsche nel campionato Endurance e lì avrebbe chiuso i conti con il titolo del mondo, conquistandolo nel 2015 e togliendosi un multi-21 di soddisfazioni.
Io non so, davvero, quanti di noi avrebbero avuto la classe di Mark Webber nel congedarsi dal motorsport dicendo: “Sono arrivato dove dovevo”. Non so quanti avrebbero parlato, con disarmante semplicità e genuina sincerità, di avere al pensiero “il cuore a metà”, dopo una carriera in F1 vissuta prima nelle scuderie minori e poi all’ombra di un compagno soverchiante, relegato al ruolo di oustider, di cavia da pezzi difettosi, passando dall’esaltarsi per un mozzafiato sorpasso sul Raidillon ai danni di una Ferrari con a bordo Fernando Alonso al farsi la fama di peggior sprecone di pole positions della Formula Uno moderna. Non saprei davvero descrivere diversamente il sentimento di empatia che mi suscitava questo pilota solido ma incompiuto, se non dire che, nel 2010, ad Abu Dhabi, ho tifato anche un po’ per lui.
Dicono che Mark Webber sia sempre stato un gran signore, pure troppo, che amasse viaggiare in classe turistica, che non si prendesse molto sul serio e che gli piacesse divagare leggendo. A me, che lo guardavo dall’altro lato del televisore, ha sempre trasmesso, oltre che una genuina simpatia, l’ammirazione per chi sa vivere una vita normale facendo un mestiere eccezionale. Al di là dei risultati, come si fa a non amare un uomo che corre l’ultimo giro della sua vita in Formula Uno togliendosi guanti e casco, per godere, come mai aveva fatto, quel vento, quella velocità e quel suono? Quell’ultimo giro, in questa Formula Uno di ragazzotti programmati al simulatore, ci ha restituito un uomo innamorato del suo mestiere di correre. E Bernie solo sa quanto bisogno abbia questa Formula Uno di uomini!
Grazie Mark, per aver fatto parte della nostra, della mia passione. Per me sarà sempre un piacere.
A lap of Austin with Mark Webber
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