Domenica 28 maggio 2017. Un giorno scandito da due imperdibili appuntamenti: la Formula 1 è in scena nelle strade del Principato di Monaco, la IndyCar fa tappa in quel dell’Indianapolis Motor Speedway per una attesissima 500 Miglia, la quale, come noto, vede la tanto clamorosa quanto gradita partecipazione di Fernando Alonso, due volte campione del mondo di Formula 1 (2005-2006).
L’infinitamente lento e l’infinitamente veloce a confronto. Due circuiti antitetici, agli opposti, saldi e intramontabili monumenti in in automobilismo contemporaneo troppo spesso propenso a tradire le proprie origini e tradizioni. Monaco e Indianapolis, ossia un circuito stradale-cittadino ed un ovale: capisaldi del motorismo delle origini, epoche durante le quali i tracciati seguivano e ricalcavano in maggioranza le suddette tipologie. Ai circuiti stradali-cittadini, infatti, va il merito di aver letteralmente portato tra le case e nelle città tutto il fascino del genuino e autentico motorismo sportivo; agli ovali, invece, l’onore, ieri come oggi, di elevare il motorsport a pura velocità. L’Europa, scioccamente, ha abbandonato (salvo più uniche che rare eccezioni) quest’ultima tipologia di tracciati; al contrario gli Stati Uniti, ancora oggi, si ergono a Patria incontrastata degli ovali – dagli short track ai famigerati superspeedway – in una piacevole e multiforme alternanza con i circuiti stradali, sia essi permanenti o cittadini.
La 500 Miglia di Indianapolis conosce la sua prima edizione nel 1911. È il 30 maggio. Si inaugura la lunga era della AAA (American Automobile Association), che durerà sino al 1955 e alla quale succederà il regno USAC (United States Auto Club, 1956-1995; nel biennio 1996-1997, USAC e IRL condividono l’egida della corsa, che passa completamente nelle mani della IRL-IndyCar dal 1998). Solo le due guerre mondiali (biennio 1917-1918 e dal 1942 al 1945) interrompono momentaneamente il regolare svolgersi della più celebre competizione automobilistica in terra americana, la quale, dal 1950 al 1960, viene inclusa (invero, assai forzatamente) nel calendario del Mondiale Piloti di Formula 1. Il 14 aprile 1929, grazie alla brillante intuizione di Antony Noghès, viene scritto il primo capitolo dell’epopea del Grand Prix Automobile de Monaco. Dal 1950 – con le sole eccezioni degli anni che vanno dal 1951 al 1954 – il GP di Monaco abbraccia il calendario di Formula 1.
Di acqua sotto i ponti ne è passata ma, a tutt’oggi, il GP di Montecarlo e la 500 Miglia di Indianapolis costituiscono due tra i più significativi e virtuosi esempi di come competizioni e tracciati sorti e concepiti molti decenni or sono possano (e debbano) vivere e sopravvivere, nel presente e in futuro.
Tracciati antitetici, dicevamo. Il GP di Monaco si snoda in uno dei circuiti più caratteristici e noti nell’intero panorama automobilistico. Curve, nomi e scorci paesaggistici che hanno scritto pagine di Storia, entrate di diritto nell’immaginario collettivo. Un tracciato, nel corso degli anni, gradualmente reso più lento mediante l’introduzione di varianti e chicane ma che non ha smarrito e snaturato la propria originaria identità. Il circuito monegasco è stato modificato in più occasioni; tuttavia, fortunatamente, le caratteristiche generali e molti tratti salienti sono rimasti inalterati. Attualmente, il record in qualifica appartiene a Sebastian Vettel. Siamo nel 2011. Il tedesco della Red Bull RB7-Renault (V8 aspirato di 2400cc) firma la pole-position (circuito di 3340 m) in 1:13.556, alla media di 163,467 km/h. Il giro più veloce in gara è datato 2004: in quell’occasione, Michael Schumacher (Ferrari F2004; V10 aspirato di 3000cc) fa segnare un formidabile 1:14.439, alla media di 161,528 km/h (circuito di 3340 m). Vedremo, condizioni meteo permettendo (sempre una piacevole incognita in quel del Principato…), se le monoposto F1 in configurazione 2017 saranno in grado di avvicinare o addirittura battere i record del 2011 e 2004. Nel 2016, Daniel Ricciardo (Red Bull RB12-Renault, V6 Turbo 1600cc) lambisce la pole-record di Vettel: 1:13.622 alla media di 163,174 km/h (circuito di 3337 m). In gara, lo scorso anno, Lewis Hamilton (Mercedes F1 W07) realizza il miglior passaggio in 1:17.939 alla media di 154,136 km/h; un crono migliore rispetto a quanto visto nei primi due anni della nuova era Turbo (2014-2015), ma ancora distante dai tempi delle vetture aspirate V10 e V8.
Per quanto concerne Indianapolis (un magistrale “rectangular oval track” di 2,5 miglia, pari a 4,02 km, comprendente di 4 curve; il banking delle curve è di 9,2°), occorre tornare indietro agli Anni ’90 per scovare e riassaporare i record della pista. Il 12 maggio 1996, Arie Luijendijk, nel corso – suo malgrado – del secondo giorno di qualifiche, firma il record ufficiale dello speedway dell’Indiana sul giro singolo (solo qualificazioni ufficiali e gara omologano i record), alla media 237,498 mph, pari a 382,21 km/h. È record anche sui 4 giri complessivi di qualificazione: 236,986 mph, pari a 381,39 km/h. Il pilota olandese completa il miglior giro in 37.895 secondi. Il 10 maggio, tuttavia, durante l’ultimo giorno della prima settimana di prove, Luijendijk spinge la sua Reynard 94I-Cosworth Turbo #35 (#5 in gara) del Byrd-Treadway Racing sino alla sbalorditiva media di 239,260 mph, pari a 385,05 km/h. Nel medesimo anno, Eddie Cheever firma il giro record in gara: al volante della Lola T95/00-Menard/Buick, segna una media oraria pari a 236,103 mph, corrispondenti a 379,97 km/h. È il 26 maggio 1996. Quelle medie, oggi, appaiono come miraggi sahariani. La Indy 500 del 1996 è storicamente importante. Non solo, infatti, vengono registrati i già citati record tuttora in vita e imbattuti, ma è la prima edizione inclusa nel calendario della neonata Indy Racing League (egida USAC). Sono appena esplose le lotte politiche tra CART e IRL, lo schieramento – a seguito delle suddette lotte intestine tra team e organizzatori ormai divisi in opposte fazioni – brulica di rookie, alcuni dei quali dalla scarsa esperienza e dal dubbio valore sportivo. La corsa, ad ogni modo, vede la partecipazione delle indimenticate monoposto turbocompresse ereditate dalla CART e piloti di assoluto livello (da Arie Luijendijk ai rookie Michele Alboreto e Tony Stewart, da Davy Jones a Eddie Cheever, passando per Scott Sharp, per citarne alcuni).
Monaco e Indianapolis, circuiti antitetici accomunati da tradizione e imprevedibilità, ingrediente, quest’ultimo, che caratterizza intrinsecamente tanto il Monaco GP quanto la Indy 500. Storie di auto, uomini, campioni. Quando l’infinitamente lento e l’infinitamente veloce stuzzicano e soddisfano il palato degli appassionati. Buona visione…
Scritto da: Paolo Pellegrini