Ferrari 312B è il titolo del film di Andrea Marini, distribuito da Nexo Digital, nelle sale cinematografiche di tutta Italia in questi giorni, che celebra il settantesimo compleanno della Ferrari attraverso una delle sue monoposto più iconiche. Qualcuno di noi è andato a vederlo…
Se si fossero usati ancora i tradizionali rullini fotografici, quelli a quantità prestabilita da 24 o 36 foto, al posto delle attuali memorie digitali, praticamente infinite, sono sicura che li avrei consumati quasi tutti per lei quando l’ho vista nel paddock di Imola, durante le due passate edizioni del Minardi Day. Di cosa – o meglio: di chi – sto parlando? Ma della Ferrari 312B con il numero 4, la protagonista del film evento omonimo proiettato in questi giorni nei cinema italiani.
E perché tutte quelle foto? Perché si trattava di una Ferrari che aveva battagliato per il titolo mondiale nel 1970, una testimone dell’epoca dei cavalieri del rischio; così essenziale e leggera, quasi fragile, a vederla, unica e preziosa come una reliquia da preservare, eppure ancora capace di sfoderare tutta la sua ruggente forza in pista. E poi, beh, era bellissima.
Perciò vorrei avvisare coloro che mi leggono che questa non sarà una recensione del film, ma un insieme di pensieri sparsi che mi ha suscitato. Capire tu non puoi, tu chiamale se vuoi emozioni, diceva il poeta.
Il primo di questi pensieri sparsi è che ho apprezzato la narrazione tramite l’alternanza fra testimonianza storica e documentario, laddove il racconto del recupero dell’esemplare di Ferrari 312B scelto da Paolo Barilla per prendere parte all’edizione 2016 del Gran Prix Storico di Monaco viene intervallato da immagini di repertorio del campionato del ’70, assieme a interviste a protagonisti e commentatori: Jacky Ickx, che guidò proprio quella macchina in quel campionato, Niki Lauda, Jackie Stewart, Gerhard Berger ma anche Damon Hill e Giorgio Terruzzi.
Su un altro livello, ho trovato molto suggestivo il dialogo fra due icone: la Ferrari e Jochen Rindt. Se, da un lato, si racconta cos’era all’epoca e cos’è ancora tutt’ora la Ferrari, attraverso il restauro maniacale e amorevole di un’opera d’arte nata per fendere il vento e arroventare le piste, dall’altro viene fuori la figura di un campione unico, prima, vera, incontrastata icona glamour di uno sport che iniziava a oltrepassare i confini delimitati dagli appassionati duri e puri. La storia strappacuori di Jochen Rindt, deceduto tragicamente a Monza e al quale verrà assegnato il primo e unico titolo del mondo piloti postumo – vinto proprio contro Jacky Ickx e la sua Ferrari 312B – che calzava perfettamente la sua Lotus come se fosse stato un abito da sera, s’intreccia non solo con l’epopea di una delle monoposto che hanno contribuito a creare il mito Ferrari, ma anche con il dirompente inizio della carriera di uno dei suoi alfieri più amati, Clay Regazzoni, che vinse proprio quel disgraziato Gran Premio d’Italia.
E poi c’è lui, l’Ingegnere. Se avessi potuto scegliere chi diventare in un’altra vita, io avrei voluto essere Mauro Forghieri. Figura archetipica della Formula Uno eroica i cui echi sono uditi ancora oggi, genitore più che progettista di monoposto e artefice di innumerevoli successi in seno alla Casa di Maranello, è attraverso di lui che il regista Andrea Marini mostra allo spettatore il mondo misconosciuto degli ingegneri, dei meccanici, dei carrozzieri, di tutti coloro i quali, praticamente a mano, davano forma ai sogni. Un mondo che oggi, pur essendo esploso esponenzialmente, data l’influenza asfissiante della tecnologia nella Formula Uno moderna, resta comunque confinato entro le segrete stanze delle scuderie o in uno sgabello al pit wall.
Manca qualcosa a questo film? Non saprei. Avresti voluto che fossero trattati temi differenti? Non sono un’esperta. Più che altro, come detto all’inizio, non posso essere obiettiva. Obiettivamente, però, la vera forza di questo film è stata portare sul grande schermo l’avventura romantica di una monoposto e farla guardare a padri, figli, ragazzi e ragazze di tutte le età, come me e mia nipote quasi diciottenne, creando anche in questo caso un dialogo, stavolta emozionale, fra generazioni differenti.
Tutto nel nome immortale di un siluro di metallo verniciato di rosso con un cuore pulsante a dodici cilindri, che tutti amiamo.