Ferrari70 | Una vittoria che sfugge, un campione che sbaglia, un team che non si arrende!
Un anniversario da festeggiare, una vittoria che sfugge platealmente, una squadra che non si arrende, un campione che sbaglia.
Il campionato 2017 sembrava buono per riportare la Ferrari sugli altari dei primi e invece anche stavolta a Maranello è toccata la polvere destinata ai secondi. È stato amaro e stordente, soprattutto per aver avuto la consapevolezza circostanziata di essersela giocata alla pari; il 2017, purtroppo, non si è concluso come il 2007, ma, per fortuna, nemmeno come il 1997. Già il 1997. Anche allora c’erano un anniversario da festeggiare, una vittoria che sfugge platealmente, una squadra che non si arrende e un campione che sbaglia.
Vent’anni fa, in una giornata bigia di un noioso novembre, da un severo palazzo di Place de la Concorde a Parigi un uomo che non era nei suoi panni uscì sconfitto per la seconda volta in pochi giorni nella disputa che lo aveva visto protagonista. Era recidivo e il fatto che in precedenza gli fosse andata bene non fece che acuire la sua nominata di personaggio destinato a lasciare segni indelebili nel motorsport ma limitatamente alle fiancate degli avversari; vent’anni fa, infatti, fu squalificato. Cancellato dagli albi di un Campionato nel quale era stato a lungo in testa, nel quale era arrivato a una manciata di punti dal realizzare il miracolo, contro avversari di livello e con un mezzo inferiore. Quel giorno, in un bigio novembre, Michael Schumacher assaggiò la polvere e si accorse che era ben più amara di quella della via di fuga della curva Dry Sac del circuito di Jerez de la Fronteira, nella quale aveva miseramente arrestato la marcia della sua Ferrari un paio di settimane prima. Quel giorno, alla Ferrari dei facili proclami, che può contare su un fazzolettino di soluzioni tecniche per coprire un gap grosso quanto un letto a due piazze ma che troppo facilmente si infiamma al primo barlume di continuità, venne impartita ancora una volta una lezione: non bastano l’afflato mistico dei tifosi, una storia blasonata, una squadra vogliosa di riscatto e l’estro di un campione per battere una corazzata, la corazzata Williams, che viene da una lunga striscia di successi nel passato recente e ha dalla sua esperienza e professionalità. E per la quale, quell’anno, correva il figlio di Gilles.
Nonostante si fosse pervicacemente impegnato per evitare qualunque suggestivo quanto schiacciante paragone, Jacques Villeneuve non poté evitare che lo si accostasse all’amata figura paterna quando, nel 1996, divenne titolare di un sedile in Williams accanto all’altro figlio d’arte, Damon Hill, il Numero Zero. I capelli fosforescenti, le esternazioni gradevoli come lo sbattere contro uno spigolo a piedi nudi, una sfrontatezza giovanile che, però, non aveva nulla di spensierato, erano tutti tratti distintivi di una personalità precisa e ben distinta, ma la suggestione del figlio di Gilles che si candida a portare a compimento il percorso paterno fu forte lo stesso. Ah, se i ranghi di Maranello non fossero stati al completo! La voce, molto più che un sussurro, scappò distintamente, lasciando Michael Schumacher apparentemente imperturbabile e Jacques Villeneuve sdegnosamente contrariato. Io non sono solo il figlio di Gilles, io non ho alcun desiderio di correre per la Ferrari. Sarò campione del mondo perché sarò il più veloce sulla macchina migliore.
Jacques non era Gilles. Aveva uno stile di guida razionale e preciso coniugato a uno stile di vita da ragazzo qualunque, magari un po’ più strafottente della media; sembrava osservare come se ne fosse al di fuori tutte le questioni che smuovevano l’anima degli appassionati, cavandosene fuori con una battuta di spirito o con qualche osservazione al vetriolo sugli avversari. A suo modo era simpatico, piaceva alle ragazze – compresa quella che scrive – ma era molto ben distante dal far ammalare i tifosi di quella meravigliosa febbre che prese diretta la via del cuore quando fu suo padre a gareggiare. Però fu il più veloce sulla macchina migliore e quel campionato 1997 lo vinse. Vinse perché la Williams portò allo scoperto le ancora presenti lacune di potenza e affidabilità della Ferrari, tanto che l’alloro dei Costruttori finì a Groove con una gara di anticipo; vinse perché la classe superiore di Michael Schumacher non bastò a colmare quelle lacune e perché Jacques fu sufficientemente forte da stimolare le debolezze dell’avversario. Durante l’ultima gara, a Jerez de la Fronteira, alla curva Dry Sac, la manovra di Schumacher – come sentenziò la Fia – non fu una disperata quanto inutile difesa ma una deliberata scorrettezza volta a eliminare un avversario nel solo modo ancora possibile: sbatterlo fuori pista.
E fu così che sugli altari finì un piccolo canadese dal viso di un adolescente sfrontato, con gli occhi azzurri e i capelli gialli, mentre il metodico padre di famiglia tedesco, che sembrava non avere punti deboli, finì sconfitto nella polvere, a meditare sulle fragilità sue e della sua squadra. Ben più lungo e tortuoso sarebbe stato il cammino che avrebbe sancito la rinascita della Ferrari, ma forse quel giorno, uscendo da un solenne palazzo di Place de la Concorde con ancora addosso l’amara polvere della sconfitta, Michael Schumacher capì che per quanti gli gridavano contro che la sua scorrettezza lo aveva reso indegno del sostegno della Gente Rossa, ce n’erano altrettanti che lo avrebbero aiutato a scrollarsi quella polvere di dosso. E in nome di costoro lui doveva far sì che le bandiere di Maranello tornassero a garrire al vento.
Vent’anni dopo, adesso, in un noioso novembre del 2017, Jacques Villeneuve fa il commentatore sportivo. Le osservazioni al gusto cartavetra sono sempre quelle, la simpatia strafottente anche; ha solo aggiunto un dettaglio alle sue mise, vale a dire gli occhiali: fosforescenti, ovviamente. Ha chiuso il cerchio con suo padre qualche anno fa, nel 2012, quando ha accettato di provare la sua Ferrari in occasione del trentesimo anniversario della tragica scomparsa di Gilles. Aveva lo sguardo pieno di meraviglia di un ragazzino e sorrideva sereno, in pace.
Vent’anni dopo in Ferrari ci sono un anniversario da festeggiare, una vittoria che sfugge platealmente, una squadra che non si arrende, un campione che sbaglia. E tanti ingegneri del lunedì che si affollano fuori dai cancelli di Maranello ad alimentare una diatriba ormai sterile. Pensino a dove eravamo, pensino a dove siamo. E siano riconoscenti.
E Michael Schumacher? Oh, lui non si è limitato a riportare a garrire al vento le bandiere con il Cavallino Rampante, perché del Cavallino Rampante è diventato lui stesso una bandiera.