La Ferrari e il 2019: tornare a vincere non è questione di un uomo solo!
È ormai da diversi anni che la Ferrari ha smesso di essere un punto di riferimento all’interno del paddock per quanto riguarda la gestione del successo e dell’insuccesso, oltre che del team stesso. Certo, non aiutano a creare le giuste condizioni di stabilità i cambiamenti avvenuti nel vertice amministrativo e tecnico negli ultimi anni, più frequenti dei cambi d’abito della Duchessa di Cambridge e più vivisezionati di quelli della Duchessa del Sussex, tanto per trovare un paragone di adeguata regalità, ma dopo l’orribile 2014 e l’affaire Allison nel 2016 la gestione Marchionne sembrava finalmente entrata a regime, fra evidenti miglioramenti e altrettanto evidenti peccati originali: uno fra tutti, una comunicazione molto spesso slabbrata, senza vie di mezzo fra la tipica amenità della circolare ministeriale e la colpevole innocenza del pessimo perdente.
Poi giusto il tempo di stordirsi con i bagordi natalizi per dimenticare il doloroso 2018, fra sconfitte sportive e perdite umane, ed ecco che la Ferrari, a inizio 2019, forse costretta ad arginare frettolosamente la cateratta di news e commenti generata dalle anticipazioni della Gazzetta, annuncia la sostituzione del team principal Maurizio Arrivabene. Non c’è che dire, davvero il migliore dei modi per attirare su di sé una tempesta perfetta di indiscrezioni, ricostruzioni che fanno il baffo alla sceneggiatura di Capricorn One, commenti che vanno dall’entusiasmo puerile al pessimismo cosmico e soprattutto battute al vetriolo, del genere che “con Arrivabene la Ferrari inizia proprio male”. Una dimostrazione perfetta di quanta strada la Ferrari debba ancora percorrere per tornare a essere quella scuderia che non subiva gli eventi, ma li faceva accadere, parafrasando il buon Nigel Mansell.
Se le aziende, le organizzazioni complesse come le scuderie di Formula Uno, possono essere assimilate a esseri viventi, allora la comunicazione aziendale svolge lo stesso ruolo che l’espressione verbale, più in generale dell’atteggiamento in pubblico, ricopre in una persona: è specchio del pensiero e ne rappresenta il braccio armato nel momento in cui si tratta di farsi sentire là dove conta o all’interno di un team che ha l’affanno perché è lanciato in una rincorsa spietata ai migliori e non vede mai la fine di quell’inseguimento. E in un’azienda, in un’organizzazione complessa come una scuderia di Formula Uno, il pensiero, la testa, è chi gestisce: il vertice, che, esemplificando, si può identificare con un team principal. Se volgiamo lo sguardo alla seconda parte della stagione 2018 del Cavallino, appare, col senno di poi,evidente una gestione faticosa, se non proprio una mancanza di gestione, di quanto stava accadendo in pista e nel paddock: il ritorno di Mercedes – e quando mai se n’era andata, fra l’altro – le disfatte strategiche, gli erroracci in pista, l’involuzione della monoposto e mettiamoci anche la sfortuna. Di più non si può dire, salvo subodorare, perché la verità è, come notato dai commentatori più onesti, che nessuno di noi sa davvero come funziona un team di Formula Uno.
L’attenzione alla comunicazione è un tassello importante nella gestione dell’insuccesso, indispensabile per mettersi nelle condizioni di avere, in un futuro che si spera prossimo, successo. La mentalità vincente non è quella che cosiddetti manager finto-ventenni sgrammaticati insegnano su Instagram al grido di “Vi imparo a essere vincenti!1!”, non è uno slogan, ma è pratica costante e unità di intenti. È la caratteristica dei migliori ed è qualcosa che alla Ferrari è clamorosamente mancato. Peccato, perché piedi per terra, testa bassa e lavorare era un buono slogan, purtroppo è rimasto tale.
Su Maurizio Arrivabene si sta, in queste ore, dicendo di tutto. Non intendo unirmi al coro poiché per me affermare che so di nulla sapere non è solo uno sfoggio di cultura classica, uno slogan, ma un modus operandi: io non so nulla, ma quel che mi è arrivato come appassionata che segue le corse da più di un ventennio e che ha scelto di raccontarle attraverso il filtro della propria sensibilità, è che si tende a dimenticare che questo è uno sport di squadra. Se si perde la colpa non è mai di uno solo, ma di un collettivo che non ha trovato la giusta strada, di una squadra che non è stata la migliore; d’altro canto è anche, se non giusto, comprensibile, che chi è stato messo al vertice con una precisa missione, se la fallisce alimentando indiscrezioni su dissidi interni e scontri fra fazioni che poco hanno a che fare con lo sport, venga messo da parte. Quando in un corpo la testa non funziona bene, gli altri organi possono solo far sopravvivere quel corpo e la Ferrari non può permettersi di vivacchiare mentre gli altri si godono la vita.
Spesso si tende a dimenticare anche che questo è uno sport di squadra complesso, dove una tecnologia esasperante è data in mano a uomini traboccanti passione. È l’unico sport nel quale, molto poco decoubertinianamente, partecipare è costoso e il secondo è il primo dei perdenti. È uno sport rischioso, dove i ragazzi muoiono ancora, ma che ha visto gran parte degli scontri spostarsi dalla pista alle segrete stanze dei bottoni in cui si decidono forme e modi della competizione. Credere che un solo uomo abbia la ricetta per mettere mano proficuamente a tutto questo è quantomeno ingenuo, soprattutto se deve farlo alla Ferrari, la cui storia, recente e passata, dimostra che la passione non basta: perché, parafrasando Phil Hill, dopo anni e anni che picchi la testa contro un muro di mattoni, non ti interessa più che sia il più bello del mondo, ma hai solo la sensazione di trovarti all’inferno.
Mattia Binotto e i suoi uomini in rosso sono chiamati all’ennesima impresa, insomma. Tutto sommato, è qualcosa che conoscono molto bene, qualcosa alla quale sono intonati: l’inferno,infatti è rosso. Auguro loro di trasformarlo in cavalli e di scaricarlo in pista.
Buon 2019 a tutti.