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    #MyRace1000 – Le mie gare del cuore, la mia Formula Uno

    Laura Di NicolaBy Laura Di Nicola12 Aprile 2019
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    Il Gran Premio della Cina 2019 sarà la Race1000, cioè il millesimo Gran Premio della storia della Formula Uno. Qual è la tua gara del cuore fra queste mille? Quale, lungo questo percorso, ti ha preso per poi non lasciarti più andare? Ognuno ha dato la propria risposta, chi concentrandosi su una gara singola, chi parlando di più episodi con un comune denominatore, chi parlando del proprio idolo.

    Ogni individuo che abbia una passione vive la propria vita come quella di un albero d’alto fusto sul quale si sia avviluppato un rampicante: è in simbiosi con qualcosa di bello e forte, che potrebbe soffocarlo oppure aiutarlo a sostenersi. L’albero con un rampicante addosso assume un aspetto diverso, forse anche un po’ buffo ed esagerato, ma quando il rampicante fiorisce diventa bellissimo. Tra la mia persona e la mia Formula Uno non so chi sia l’albero e chi il rampicante, ma da questa vita simbionte, ora fiorita ora soffocante, ho tratto talvolta delle lezioni, altre volte dei messaggi e spesso solo dei bei ricordi. In base a quel che mi hanno lasciato, queste sono le mie gare del cuore. Questa è la mia Formula Uno.

    San Marino 1994 – The day the F1 (should have) died.

    Nella mia vita di bambina, la Formula Uno era la Ferrari di Michele Alboreto, fatta più che altro di rapidi fotogrammi rossi intravisti in tv fra un gioco e l’altro, nelle orecchie il tifo di mio padre. Crescendo, nella mia memoria restò scolpito un flash: era il 1990 e passai accanto alle reti di Jacarepaguà, a Rio de Janeiro. Fu come essere nei panni degli antichi viaggiatori e varcare quella soglia indicata sulle cartine con Hic sunt leones: qui ci sono le monoposto. I miei ricordi di Senna sono intrecciati ai miei ricordi del Brasile, evocano la stessa bellezza terribile, potente e romantica e ho scelto la sua ultima, fatale gara al posto di tante imprese vittoriose perché ero ormai adolescente, in quella fase di passaggio in cui si dice addio all’infanzia e si guarda con timore e speranza al futuro. Quel primo maggio fu il giorno in cui la Formula Uno morì, o almeno avrebbe dovuto farlo. Non successe, ma cambiò per sempre e, da quel giorno, molti di noi ingenui spettatori sono cresciuti per sempre, come bambini diventati grandi.

    Ripercorrere a ritroso la carriera di Senna in occasione del ventennale della sua morte mi ha fatto riscoprire le vicende di altri grandi campioni. Prost, innanzitutto, ma anche Mansell e Piquet. Ho conosciuto Bellof, Peterson e De Angelis, di lì, a ritroso, ho riavvolto il filo rosso di altre figure di giovani e splendidi campioni scomparsi troppo presto, come Cévert e Rindt. Mi ha rimesso addosso la voglia di scrivere, così ogni volta che parlo di loro mantengo inalterato il legame con quella me bambina, ora che le reti di Jacarepaguà non ci sono più e di quel passato mi resta solo una figurina con Riccardo Patrese.

    Jerez de la Fronteira 1997 – Non importa se cadi, ma come ti rialzi.

    All’indomani di quella sciagurata gara non sapevo se essere più felice perché il mio beniamino (laddove “beniamino” sta per “penosa cotta adolescenziale”) Jacques Villeneuve aveva vinto il Campionato del Mondo o arrabbiata per il modo molto poco sportivo con il quale Michael Schumacher aveva cercato di ostacolarne il successo. I sentimenti contrastanti, però, lasciarono il posto ad altre considerazioni: quello fu uno dei punti più bassi dai quali Michael Schumacher e la Ferrari sono risaliti, fino a costruire una delle storie più indelebili di successo dell’intera Formula Uno. Non è stato facile, perché sono dovuti passare altri due anni di purgatorio, durante i quali sono successe Spa ’98, la doccia fredda di Suzuka  e l’incidente di Silverstone ’99, ma ne è venuta fuori una squadra praticamente imbattibile.

    Le lezioni che si apprendono dalle cadute sono le più efficaci.

    Resto molto affezionata a Jacques Villeneuve, non tanto perché ormai troppi anni fa è stato il mio beniamino, quanto perché attraverso lui ho recuperato qualcosa che nella mia memoria purtroppo mancava e manca tuttora: l’entusiasmante cavalcata rossa di suo padre Gilles.

    Spa 2000 – Vincere facile non esiste.

    Facile ricordare ora l’esaltazione di quegli anni, dopo aver visto quel pilota e quella squadra fare quattro soste a Magny Cours, fra genio e strapotere.

    Facile parlare di campionati noiosi, che si chiudevano a luglio, con gli avversari, validi e meno validi, lasciati indietro come quelli con le scarpe scomode durante le visite guidate.

    Facile – e stupendamente nostalgico – ricordare il traguardo di Suzuka che toglieva finalmente al popolo rosso la sete durata ventuno anni.

    Niente è stato mai facile, semplicemente non ce ne siamo accorti, grazie all’immane lavoro di una compagine di professionisti eccellenti, che non si sentivano mai appagati. Ricordo bene lo scoraggiamento che provammo tutti guardando la gara di Spa nel Duemila, quando il Kaiser dovette incassare, su una pista che era considerata il cortile di casa sua e in condizioni ambientali in cui sapeva essere un vero maestro, una manovra che è la sintesi della bellezza di un gesto atletico: forza, coraggio, eleganza e intelligenza. Per di più dal proprio diretto rivale per la conquista della corona iridata, quel Mika Hakkinen campione del mondo in carica, avversario coriaceo e al contempo leale.

    Non fu facile vincere nel 2000, non è facile vincere oggi. Le difficoltà arricchiscono, così oggi possiamo dirci tutti più ricchi, perché abbiamo provato la gioia di Suzuka e assistito a quel fantastico sorpasso sul rettilineo del Kemmel.

    Interlagos 2008 e 2012, Abu Dhabi 2010 – Non corri da solo.

    Non infierirò indugiando sull’amaro ricordo di questo trittico di gare di fine stagione, che presentano tratti comuni: giungevano alla fine di campionati molto combattuti, erano decisive, sono state teatro di eventi casuali – fortunati o sfortunati a seconda della prospettiva dai quali li si guarda – e la Ferrari le ha… ehm… prese sui denti tutte e tre.

    Mi concentrerò solo sulla lezione che ho appreso, cioè questa: puoi essere solo nell’abitacolo, ma non corri da solo. Senza scomodare la filosofia di Kant, questo è un insegnamento valido per chiunque: i tuoi risultati, le tue relazioni, le tue azioni sono dipendenti da quelle degli altri; puoi solo fare del tuo meglio e non è detto che basti, perché gli altri possono essere migliori di te. Non hai che da comprenderlo, accettarlo e andare avanti. Migliorandoti, se possibile.

    Valencia 2012 – Non arrenderti mai.

    Almeno due nazioni dello sport a motore, se non tre, quel giorno, ai piedi di quel podio, piansero calde lacrime di commozione. Sul gradino più alto c’era Fernando Alonso, che piangeva – sì, proprio lui, pure lui – lacrime di gioia, rabbia e orgoglio, fra un imperturbabile Kimi Raikkonen e un fiero Michael Schumacher. Il pilota della Ferrari partiva undicesimo, troppo indietro perfino per lui, il re dei “primogiristi”, eppure, riflessa nella fredda bellezza dell’avveniristica architettura di Valencia, andò in scena una rimonta clamorosa: una gara perfetta dello Spagnolo e della Ferrari, “aiutata” da una catena di eventi imprevedibili, fra guasti e incidenti, che colpirono tutti i diretti avversari, in gara e nel Mondiale, uno dopo l’altro.

    Molte volte mi sono figurata a cosa potesse somigliare il destino. Ripensando a quella gara, non ho dubbi: il destino è un abile ricamatore, che imbriglia la tela nel telaio e costringe il filo nei punti per fissare il proprio disegno. Davanti apparirà tutto perfetto, ma è voltando il ricamo che si vedono gli inciampi, i passaggi, i nodi.

    Quel giorno il destino aveva scelto il filo rosso di Fernando Alonso. Anche se sei un punto sul ricamo del destino, dunque, non arrenderti mai, perché non puoi conoscere la trama della vita e i colori del suo disegno.

    Monza 2008 – C’erano una volta gli outsiders.

    Ve li ricordate quei tempi, quando la Jordan vinceva i Gran Premi? Ve le ricordate quelle gare inzuppate, più che bagnate, dove i giovani fenomeni a bordo di scatole di lamiera a motore, fragili e pericolose, davano lezioni ai campioni affermati, troppo occupati con i calcoli di campionato? Sì? Bene, pure io. E immagino siate consapevoli che quei tempi potrebbero non tornare mai più, visto che è davvero difficile, con le formula uno attuali, ritornare a un’epoca neppure troppo remota, durante la quale gli outsiders – non quelli che chiudono terzi in campionato, ma quelli che chiudono sesti o giù di lì – inforcavano due o tre gare andando a podio, accanto agli sfidanti per il titolo del mondo, oppure vincevano e non una volta sola.

    Ho scelto Monza 2008 proprio perché è la più recente. La storia la conoscete tutti: parla di un ragazzino di una scuderia satellite che si prende la pole a Monza, mentre infuria la battaglia mondiale fra Ferrari e McLaren; sotto un diluvio da tregenda, la gara parte dietro la safety car e alla ripartenza quasi tutti avrebbero scommesso che il ragazzino sarebbe stato presto ripreso e fagocitato dagli altri meglio attrezzati e accaniti avversari. Non è successo.

    Stavolta non c’è nessuna lezione, ma solo un messaggio positivo, perché in un mondo in cui conta primeggiare e stare sempre sulla cresta dell’onda, anche un outsider può vivere il suo giorno da leone e regalare una gioia a tutti quelli che lo guardano. Ecco, io vi auguro di vivere quel giorno, di essere come Sebastian Vettel e la sua Toro Rosso Ferrari a Monza, il 14 settembre 2008.

    Monaco 1996 – This is Formula One

    Gli ingredienti c’erano tutti: un circuito iconico, selettivo e logorante, bagnato dalla pioggia; il campione incaricato di una missione, che il giorno prima aveva compiuto una specie di miracolo agguantando la pole; il suo avversario degli ultimi campionati, che aveva finalmente l’occasione di fargli pagare i segni indelebili lasciati sulle sue fiancate; l’arrembante figlio di, bramoso di risultati e di dimostrare di non esser solo il figlio di; un manipolo di agguerriti outsiders, vecchie lenze dei circuiti e giovani più o meno validi, pronti ad agguantare quel che fosse loro capitato. A Montecarlo, come la storia ci insegna, tutto può succedere e quel giorno nel 1996 successe di tutto.

    Più che un Gran Premio, sembrava di assistere a una partita a flipper, con le monoposto che sembravano spinte qua e là da una forza esterna e dispettosa, che si divertiva a farle collidere fra loro o con i muretti, rompendo sospensioni e motori in modi fantasiosi. Michael Schumacher, Damon Hill e Jacques Villeneuve furono costretti al ritiro uno dopo l’altro e assieme a loro buona parte dei partecipanti, in una sorta di democratica livella che colpiva ora i piani alti ora i piani bassi della classifica. Guardavi e a ogni giro accadeva qualcosa, avresti voluto dire Porco…! ma prima che riuscissi a decidere porco cosa era già successo qualcos’altro. Era tutto bellissimo.

    La gara fu interrotta con tre tornate di anticipo perché superò il mite massimo di due ore di durata. Solo quattro monoposto arrivarono al traguardo, tre a pieni giri. Vinse Olivier Panis, che mai più conseguì un risultato del genere. Fu l’ultima vittoria per la gloriosa Ligier durante quello che sarebbe stato il suo ultimo campionato, come nella migliore tradizione romantica. Secondo fu David Coulthard, su McLaren Mercedes, seguito da Johnny Herbert su Sauber, che diventerà famoso per essere il vincitore di un altro Gran Premio caratterizzato da… una grande moria di partecipanti, cioè il Gran Premio d’Europa 1999. Ultimo arrivò Heinz-Harald Frentzen, colui che aveva imparato a guidare sui carri funebri di famiglia e… niente, è già epica così.

    Quella gara dimostrò che addestratissimi uomini-computer potevano commettere leggerezze fatali, che assetti e strategie possono essere l’unica salvezza in condizioni di massima incertezza oppure trasformarsi nella causa di tutti i guai, che una pista anomala sotto la pioggia può livellare le prestazioni fra le monoposto e che non è sempre detto che chi vince è il migliore, perché spesso basta che sia quello che resiste meglio degli altri. Ma la cosa veramente bella di un Gran Premio come Monaco 1996 è che, nonostante non ci siano più i V10 aspirati, le Jordan e le Ligier, una gara del genere può ripetersi ogni anno. Bastano un po’ di pioggia, una pista logorante e selettiva e qualcuno in grado di cogliere l’occasione della vita.

    Monaco 1996 è la sintesi esagerata di ciò che dovrebbe essere la Formula Uno e del perché la amiamo, nonostante tutto.

    Queste sono le mie gare del cuore, i ricordi che mi hanno lasciato, le riflessioni che mi hanno spinto a fare e i messaggi che mi hanno trasmesso. Questa è la mia Formula Uno.

    GP della Cina: il millesimo Gran Premio della storia

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