La Ferrari non va: di chi è la colpa? Macchina, piloti, strategie, ordini di scuderia…
Ogni Mondiale di Formula 1 che si rispetti è accompagnato da un tema, che infiamma il dibattito già al trapelare delle prime indiscrezioni durante la pausa invernale e deflagra dopo le prime gare, spesso prendendo forma di una domanda ricorrente.
Vuoi per aspettative represse, vuoi per l’ansia di vedere all’opera il talento di Charles Leclerc armato finalmente di una Rossa, vuoi perché il barometro del destino pareva essersi piazzato sul bello stabile in quel di Maranello già dai test di Barcellona, il Campionato F1 2019 è iniziato sotto il segno di una domanda dolce e al contempo terribile: sarà questo l’anno della Ferrari?
Dopo le prime, deludenti gare disputate dal Team di Maranello, l’effetto è stato un di…rompente ribattere ammantato di catastrofismo, comprensibile per certi aspetti, arrotolatosi, invece, attorno a ben altri interrogativi: perché la Ferrari non va? Di chi è la colpa? Dei piloti o della macchina? Delle strategie o degli ordini di scuderia?
La domanda di questo inizio di 2019, però, non riguarda gli ordini di scuderia o le strategie in Ferrari. Non rovescia il punto interrogativo per usarlo a mo’ di roncola, falciando il già flebile autocontrollo del Popolo Rosso, insistendo sulle colpe del singolo – che magari una volta è Vettel, l’altra è Sebastian, la successiva Sebastian Vettel e quella dopo ancora il quattro volte campione del mondo che guida la Ferrari. Questa domanda non interroga sui cavalli – quelli di potenza, non quelli ragliant… ehm… rampanti – né sulle ali, anteriori, posteriori o che ti mette la Red Bull.
Al massimo, perché è uno dei temi dominanti degli ultimi anni, indugerebbe sulle gomme.
A parte qualche saggia e isolata voce distante da qualsivoglia partigianeria, la spessa cortina Ferrari-centrica ha finito per annebbiare il dibattito, tralasciando quello che, invece, era ed è, secondo il modesto parere di chi scrive, l’interrogativo centrale dell’inizio di questo Mondiale, il sesto dell’era turboibrida.
La vera domanda, infatti, non è perché mai la Ferrari non sia stata fortissima in questo inizio di Campionato 2019, bensì questa: perché mai la Mercedes non avrebbe dovuto essere fortissima?
La Mercedes ha non dominato, bensì sottomesso ogni possibile avversario dal 2014 in poi ma ha vissuto, nelle ultime due stagioni, momenti in cui qualcuno, segnatamente la Ferrari, è sembrato in grado di scalfire questo stato di fatto, almeno nelle premesse e nella prima metà del campionato. Certo, si è ripresa, rapidamente e senza esitazioni, anche perché, al massimo, ha rischiato il pareggio. Ma intanto ha rischiato, una condizione di per sé aliena rispetto a quella abituale.
Ciò premesso, come abbiamo potuto pensare che la Mercedes avrebbe accettato di retrocedere, da protagonista assoluta dell’era turboibrida, a semplice contendente? Perché, alla maniera della Silvia leopardiana, all’apparire del vero cademmo miseri, boccheggiando di fronte agli esiti disarmanti e deludenti di quattro Gran Premi, diversissimi fra loro per ogni genere di caratteristica ma drammaticamente identici per quanto riguarda il risultato finale? Perché non evidenziamo che le sconfitte della Ferrari sono dovute anche e in gran parte al grande lavoro della Mercedes?
Non è forse azzardato, allora, alla sesta stagione, affermare che ancora non conosciamo davvero il nemico, se ci facciamo sorprendere dalla sua capacità di mantenersi superiore , nonostante i progressi e i valori in campo progressivamente avvicinatisi. Iniziamo col riflettere su qualche caratteristica della scuderia campione del mondo in carica che è evidente perfino agli occhi di chi sta dall’altra parte del televisore.
Mercedes ha percorso quasi settemila chilometri durante i test prestagionali con assoluta e inquietante regolarità, senza alcun picco velocistico ma anche e soprattutto senza alcun accenno di guasto. E i test contano. Sempre. Non solo quando fa comodo trastullarsi con certi risultati oppure, di converso, atteggiarsi a esegeti del lungo periodo negando valore alla prestazione singola.
Da quando è stata costruita la squadra, non ha mostrato nessun cedimento, nemmeno di facciata: resta la collaudata e inveterata abitudine di volare basso, di indicare in questo o quello il favorito di turno, spostando la tensione, la pressione, l’attenzione e l’aspettativa sui rivali, per poi godere doppiamente dei risultati positivi quando, puntualmente, arrivano. Un’abitudine che, nonostante sia appunto collaudata e inveterata, ancora riverbera effetti non disinnescabili su avversari e pubblico. E sui social fanno pure i simpatici!
Adopera cinismo somministrato a schiaffoni, finché, una volta accettato, non viene visto come realismo: l’ars gratia artis dello sportivo puro, il romanticismo, la nobiltà del cadere per poi rialzarsi sono concetti edificanti e molto belli, ma alla Mercedes piace gareggiare finché conviene, finché gli ingenti investimenti in macchine, mezzi, uomini e marketing danno un riscontro più che positivo, mondiale. Altrimenti se ne va, come ha già fatto in passato, lasciando agli altri il blasone e l’onorabile fedeltà alla categoria.
La Mercedes è paragonabile a uno di quei robottoni da cartone animato giapponese che hanno irrimediabilmente rovinato tanti attuali adulti, quelli che diventavano giganteschi e imbattibili dopo che più parti singole si aggregavano assieme: in questo caso si sono unite massima efficienza organizzativa e gestionale, perfetta padronanza della tecnologia motoristica e aerodinamica, enormi investimenti, abilità politica e attitudine rilassata, il tutto in un meccanismo collaudato e ben oliato. A queste considerazioni vanno aggiunti i piloti: se riesci a far andare alla grande anche un Bottas, dopo una stagione deludente come il 2018, nella quale gli hai fatto mandare giù più tappi che champagne, hai ben poche preoccupazioni, se nello stesso box hai pure un Hamilton.
Attenzione, però: non è detto che gli altri, gli avversari, siano destinati ineluttabilmente a fare la fine dei Meganoidi – già dalla sigla di partenza sai come finirà – e a consolarsi soltanto con l’avvenenza di Miss Dronio. Certo non è facile, in questa Formula 1 caratterizzata dai lungi cicli di dominio, statica nel breve periodo e per così dire vivacizzata dai cambi regolamentari, ma non è impossibile. Bisogna essere migliori di loro, sempre consapevoli che non si corre da soli e che si gioca in squadra, in un campionato lungo 21 gare.
Per tutti gli altri, iniziare a farsi le domande giuste potrebbe esser un buon rimedio al malessere che dà ondeggiare fra aspettative e catastrofismo, annebbiati da una coltre rossa.