In Formula 1 non diventi campione se non hai la macchina.
Andate a dirlo a qualche oldschool e verrete indirizzati alla più vicina discarica – pardon, centro di compostaggio dell’umido, in ossequio all’automobilismo green che va per la maggiore.
Eppure era vero anche allora ed è diventato sempre più vero mano a mano che i decenni si accumulavano e il fattore “macchina” del binomio “macchina e pilota” diventava preponderante. È una silloge nota, quasi logora, ma torna d’attualità ogniqualvolta si assiste a un ciclo di dominio di una scuderia e di un pilota, come in questo Campionato 2019 che ha consegnato il sesto alloro iridato a Lewis Hamilton e la sesta corona Costruttori alla Mercedes. Superiori in affidabilità, prestazione, gestione della gara: un binomio di rara eccellenza in grado di annichilire la concorrenza già dalle prime battute della stagione. Innegabili meriti e innegabili, anche, i dibattiti su quanto l’uno – o l’una – valgano senza l’altra – o l’altro.
Non diventi campione se non hai la macchina. Lewis Hamilton lo sa e, fin dagli albori della sua carriera, ha esplicitato quello che forse è il meno celebrato dei suoi molti talenti: fare in modo di trovarsi sull’auto giusta al momento giusto, minimizzando i passaggi a vuoto, vuoi attendendo che a Timo Glock cedano le gomme all’ultimo giro, vuoi sopportando il purgatorio del 2013 in attesa della riscossa turboibrida. Lewis Hamilton ha una fame ancestrale che grida per farsi sentire in ogni manifestazione del suo personaggio e del suo essere pilota, qualcosa che non si esaurisce con la parabola del giovane povero ma talentuoso che trova riscatto dalle offese della vita. È il culto di sé estrinsecato nell’esibizionismo – dalle pettinature pacchiane all’ambientalismo militante – la lotta di chi non ha mai abbastanza di niente, a incominciare dalla lotta stessa. Grandioso vincente e pessimo perdente, esperto nella delicata arte del concedersi senza riserve alle abuliche platee degli ammiratori e pieno quanto basta di quell’arroganza che si basa sulla sicurezza dei propri mezzi; più che dei record in sé, gli interessa l’aspetto di essere lui che li batte, che siano di Senna, di Fangio o di Schumacher. Dategli una macchina vincente, costruitegli un team attorno e sarà imbattibile; lui non mollerà, anche quando sarebbe scontato farlo. Lui non molla mai, per questo è un campione.
Non diventi campione se non hai la macchina. Lo sa bene Fernando Alonso, che di tutti i piloti che formano la generazione dei “vecchi” – cioè gente che ha conosciuto i gloriosi V10 e V8 – è l’unico che abbia battuto in pista Michael Schumacher e la sua Ferrari, un binomio pilota-macchina che sembrava privo di punti deboli. Una creatura mitologica fatta di estro e freddezza, uno che giovane non lo è mai stato nemmeno quando l’età anagrafica lo faceva, appunto, giovane, alimentato da una rabbia agonistica senza pari che avrebbe potuto farglieli spianare quei record che oggi sono di un altro, ma che, invece, ha concluso la propria avventura con l’ingenerosa lettera scarlatta di spaccasquadre privo di lungimiranza cucita addosso. Non ha mai avuto la monoposto, cioè la macchina imbattibile, ma vinceva. Pareva che fosse lui quello imbattibile, al netto del mezzo, uno vecchia scuola per talento e sfrontatezza, che si allenava masticando i compagni di squadra invece di limitarsi a batterli. Ma poi è arrivata una squadra di parvenu bibitari con un pilota ragazzino a dimostrare che non si corre da soli e a ribadire che conta chi taglia per primo il traguardo a fine campionato; poi le occasioni mancate si sono sommate agli episodi e la rivoluzione turboibrida ha spazzato via le vecchie gerarchie. Pilota totale, non ha smesso di cercare la competizione e la macchina che può appagare il suo talento in giro per il mondo; che occorrano ovali o deserti sterrati non importa, lui le troverà per farle sue. Per questo è un campione.
Non diventi campione se non hai la macchina. Sebastian Vettel lo sa molto meglio degli altri due, perchè nel suo caso dubitare del suo apporto avviene in maniera quasi automatica, quasi che sia una colpa il suo status di pluri-iridato. Come aggravante, il fatto di non aver alcuna esistenza infelice da riscattare o rabbia da appagare, ma solo la semplicità di una vita normale – per quanto normale possa essere l’esistenza di un precocissimo e vincente talento delle corse- e l’amore per tutto ciò che è automobilismo. Così, se da un lato afferma deciso che la sua esistenza non si identifica con il fatto di essere un pilota, dall’altro ha preso il rischio di identificarsi nel suo sogno di bambino, cioè diventare un pilota Ferrari. E ci vuole un enorme coraggio a cimentarsi con i propri sogni, perché spesso essi non si realizzano e rendono più amari gli errori durante il percorso. Lo stesso che ci vuole a fronteggiare la vittoria degli altri, che è per prima cosa una tua sconfitta, con un abbraccio sincero a un rivale e un sorriso disarmante, rimanendo orgogliosamente te stesso pur essendo bersagliato da soloni che evidenziano i tuoi limiti e ti vorrebbero diverso. Lui sa che vincere tutto non significa nulla se non vinci quello che per te conta davvero, a costo di investirci ogni cosa. Per questo è un campione.
La stessa affermazione, tre diversissimi campioni.
Per concludere, vi lascio invitandovi a rovesciare i termini del sillogismo: “Se non hai un campione non basta la macchina”.
In altri termini: se mettessimo su una monoposto come la W10 un brocco – ammesso che in Formula Uno possano esisterne – un buon, diligente mestierante in grado di portare a casa il suo compitino, a fine stagione potrebbe diventare campione? La mia risposta è: dipende. Dall’intelligenza del mestierante – che sia tanta e tale da permettergli di compensare la pesantezza di piede che gli manca – e dall’insipienza degli avversari – che sia tanta e tale da non metterli in condizione di approfittarne. Al resto penserà un lungo campionato, che non perdona chi sbaglia e chi sacrifica l’affidabilità. Con la strisciante consapevolezza che se dai loro la stessa biada guasta, brocco e purosangue rischiano di fare la stessa, miserabile, fine.