Ratzenberger, Senna e la famiglia della Formula 1. Riflessioni al tempo del Covid-19

Ayrton Senna in the cockpit of the Williams FW16-Renault. Portrait. Photo: LAT Photographic/Williams F1.
Ogni anno che si avvicina l’anniversario del drammatico trittico di fine aprile passano a trovarmi dei pensieri ricorrenti su Roland, Ayrton, sulla Formula Uno e sulle vite che a essa si intrecciano.
Ci penso ogni volta che salgo alle Acque Minerali da via Luigi Musso, quando torno a Imola, e anche quest’anno sono tornata a ripercorrere quella strada, purtroppo solo a memoria a causa del Covid-19: si sale lungo l’ampio marciapiede alberato, costeggiando le belle palazzine che sorgono poco dietro la pista, e ci si infila, poi, poi in un’apertura laterale, quasi che fosse un passaggio segreto per iniziati, una cosa esclusiva fatta apposta per chi non si sente una persona come un’altra, perché fa parte di coloro che ricordano cos’avvenne in quei giorni.
Quando si arriva lassù, generalmente c’è silenzio e il cielo è quasi sempre punticchiato di quei fastidiosi ciuffetti biancastri che il vento strappa agli alberi che costeggiano il corso del Santerno. E come ogni anno, attraversando il ricamo metallico della struttura della tribuna, penso a quel tragico trittico di fine aprile, a coloro che se ne sono andati ma soprattutto a coloro che sono rimasti fra i funamboli del circo a trecento all’ora, alle famiglie della Formula Uno di Senna e Ratzenberger.
Abbiamo tutti ben presenti le immagini di dolore di genitori, fratelli e fidanzate e molti di noi, pur restando dall’altra parte del televisore, riescono a provare empatia per tutti coloro che, di un pilota, rappresentano gli affetti più cari e insostituibili o, per dirla con un Decreto, i congiunti. Ma quando muore un pilota, ogni anno mi chiedo: che ne è di quella comunità di professionisti, meccanici, tecnici, ingegneri, addetti stampa, segretari, cuochi, che sono anche loro famiglia e nascondono sotto i colori di una stessa scuderia i loro cuori che battono al ritmo di un motore vecchia scuola che si arrampica su per la Variante Alta? Che ne è di quella domestica ecclesia devota al culto pagano del veemente dio di una razza d’acciaio di cui cantava Marinetti, quando un figlio muore fra le lamiere?
Che ne è stato di loro, una volta chiuso il dolore dentro alle divise? Ogni volta mi chiedo quanti di loro abbiano messo un punto a quella pagina della loro vita e abbiano voltato il foglio definitivamente, abbandonando le corse, o quanti, invece, trascinati dalla passione o dalla constatazione di non saper fare nient’altro, siano rimasti nel giro, oscillando fra il darsi la colpa, per aver mandato il loro ragazzo a schiantarsi in una bara di metallo, e il consolarsi, pensando al sorriso indelebile di un giovane che arriva a stringere fra le mani il proprio sogno di bambino.
E allora anche quest’anno, al riavvicinarsi dell’anniversario di quel tragico trittico di fine aprile a Imola, in un momento storico tanto difficile in cui ci si chiede di stare in casa, con le nostre famiglie, il mio pensiero va alla giovane e caparbia famiglia della Simtek e alla gloriosa famiglia della Williams e a tutti coloro i quali abbiano avuto in sorte di essere sfiorati dal sorriso di quei giovani eroi che realizzavano i loro sogni di bambini e che, per un certo periodo della loro vita, sono stati parte attiva nella realizzazione di quel sogno.
In quel weekend del 1994 qualcosa di loro, di noi, è morto. Ma non la Formula Uno, che si è trasformata, non sempre in meglio, in molti dei suoi aspetti, limitando il rischio ma rimanendo pericolosa. E non morirà nemmeno adesso, soffocata da un virus che ti leva il respiro, oltre che dalle sue croniche affezioni date dai regolamenti, dai costi proibitivi e dalla spettacolarizzazione forzata. Ce la farà, magari riscoprendosi famiglia.
Intanto qualcuno, all’avvicinarsi di questo tragico anniversario, ripensa a quei ragazzi che sorridevano stringendo un volante e i loro sogni da bambini; a quei ragazzi che facevano parte della loro famiglia, alla quale restano le vecchie foto, i trofei, qualche divisa e un malinconico ricordo che fluttua nell’aria, come i ciuffi biancastri degli alberi che crescono a Imola, lungo le sponde del Santerno.