#F170, Un personale sguardo all’indietro a sette decenni di Formula 1
Nel disgraziato, doloroso 2020 il romanticismo si è concesso un colpo di coda significativo: festeggeremo i 70 anni della Formula Uno là dove tutto è cominciato, a Silverstone. E no, non era scontato con questa Formula Uno che si ricorda della propria storia per ragioni di marketing e che – magari – già pregustava un party esclusivo in qualche sberluccicante scatolone di sabbia. E no, non era scontato nemmeno che avessimo ancora qualcosa da festeggiare, nel 2020.
All’inizio bastarono delle auto, qualcuno in grado di costruirle e ottimizzarle, qualche strada o qualche aeroporto in disuso, un pubblico e, naturalmente, dei piloti: la Formula Uno nacque dalle ceneri del dopoguerra, nutrendosi di quella simbologia che aveva reso l’automobile un mito e rendendo novelli Prometeo i personaggi che ne permisero la nascita. Gentiluomini – e gentildonne – del volante, plasmatori di desideri di lamiera e geniali costruttori che si unirono allora non pensavano che settant’anni dopo saremo stati ancora qui a parlarne. Erano puri, temerari, artisti della velocità: Ferrari, Nuvolari, Farina, Ascari, Fangio, Hill, Moss, Scarfiotti, Musso, De Filippis… Correvano in auto. E non perdevano tempo a parlarne.
Una esistenza lunga sette decenni passa attraverso numerose trasformazioni. Vennero gli anni Sessanta, gli anni in cui si correva intorno al globo, in tutte le categorie, nelle strade polverose di provincia e fra le ricche promenades. L’età di Graham Hill, di Jim Clark e di Bruce McLaren, l’età in cui tutto era possibile, come vincere la Tripla Corona o cinque volte a Monaco, o giungere da luoghi remoti del mondo – dalla Nuova Zelanda o da una fattoria della campagna scozzese, magari – per conquistarlo, il mondo.
Poi vennero i Settanta. Lord in doppiopetto condividevano il paddock con squattrinati garagisti, spregiudicate incantatrici e angeliche compagne si spartivano le attenzioni di cavalieri del rischio cool e popolari anche al di là dei recinti dei circuiti. In pista, potevi trovarti accanto una monoposto a sei ruote o un uomo che in soli quaranta giorni era risorto da un rogo. Erano gli anni di Stewart, Rindt, Lauda, Hunt, Andretti. Gli anni in cui tutto era assoluto, le icone come la libertà.
Passarono gli anni dei corsari e agli avventurieri si sostituirono i professionisti. I paddock non erano più accampamenti naif ma laboratori mobili, le scuderie non erano più officine o fabbriche ma aziende. Negli anni Ottanta si correva come per raggiungere e agguantare il futuro, per la gloria, per i record, ma si moriva ancora come nel passato. Spinti dal turbo dei loro motori, iniziavano la loro cavalcata figure che avrebbero riscritto la storia dello sport come Senna e Prost, mentre stelle cadenti come Bellof e De Angelis donavano la loro fuggevole luce al decennio.
Ogni età della Formula Uno rivendica il suo essere cruciale per l’intero movimento, ma credo che gli anni Novanta siano i più titolati a fregiarsi del titolo. In quegli anni, infatti, rischiò di finire tutto e tutto è cambiato. Una morte straziante, una vittima illustre. Più che un campione, un simbolo. La gente continuava a gremire gli autodromi e a saltare le recinzioni, ma non sopportava più il macabro voyeurismo delle vittime esibite in pista. Non più di anelito al rischio si parlava, ma di bisogno di sicurezza. La storia sembrava essere finita, ma era destinata a essere riscritta ancora una volta: passò Senna e venne Schumacher.
C’è qualcosa di poetico nella circostanza che il cambio di secolo sia stato marcato nel segno di una scuderia che era lì quando la Formula Uno è nata e l’ha accompagnata nel suo decennale percorso, traendone alimento e dannazione. La Ferrari degli anni Duemila era l’immagine del suo tempo: non solo meccanici e piloti, ma anche manager; accanto all’uomo al volante giganteggiava il team, con le sue strategie e la sua tecnologia. Quel decennio marcò le caratteristiche destinate a rimanere nel futuro dello sport: si sarebbe assistito a un’alternanza di cicli di dominio, favoriti dalla tecnologia e dall’orientamento del regolamento. Uno scenario di fissità che sacrificava le emozioni e allontanava il pubblico, mentre nuovi scenari si affacciavano all’orizzonte e gli avversari diventavano sempre più giovani e sorprendenti. Si chiamavano Alonso, Raikkonen, Hamilton.
Siamo giunti così ai giorni nostri. Il binomio uomo-macchina, che ha fatto la fortuna della Formula Uno, pende decisamente dal lato della macchina e non si parla più di incentivare il pubblico ma di attrarre nuovi mercati. Al giro del mondo che i globetrotters del volante compivano nei decenni eroici, quando si correva tutto l’anno e non si facevano distinzioni fra LeMans, Indy o CanAm, si sostituisce il tour promozionale del Circus nelle arene dei migliori offerenti.
La Formula Uno ha sposato la causa dell’ibrido, del motore del futuro, senza curarsi dei pezzi di storia che si lasciava dietro. Non esistono più le piccole scuderie come la Minardi: vuoi o non vuoi, sono tutti team satellite. In compenso, c’è l’esaltazione dell’organizzazione: un buon team, “forte” nella progettazione, nella comprensione dei pneumatici, nell’interazione meccanica, nella lettura della gara e nella tenuta sotto pressione fa quanto una buona macchina ed è indispensabile per sostenere qualsiasi pilota. Il guizzo, l’imprevedibilità, è rimasto relegato ai margini della pista, “tenuto da parte” come quella certa bottiglia di vino che si stappa solo nelle grandi occasioni, ma sempre più raramente interviene per perorare la causa di qualche outsider: nella storia recente, infatti, anche il caso è dalla parte dei più forti, come la Mercedes e Lewis Hamilton.
A chi appartiene ad altri decenni, più approssimativi, combattuti e meno tecno centrici, viene difficile affezionarsi a questa Formula Uno. È come chiedere a chi ha vissuto le epopee dei grandi cartoni animati giapponesi di provare qualcosa per la caccia ai Pokemon: è vero, il più fortunato, in quelle storie lì, era un orfano che si perdeva nella pioggia assieme a un gatto obeso, ma potevi viaggiare fra galassie in un treno spaziale o rivivere la Rivoluzione Francese. È come chiedere di definire “musica” la Trap a chi sente ancora nelle orecchie l’urlo di Robert Plant in The Immigrant Song.
Ma la Formula Uno non chiede e, a settant’anni suonati, è ancora in grado di dare. Soprattutto, continua a raccontare una storia, la propria, fatta di tante storie. Di macchine, scuderie e circuiti, ma fondamentalmente di uomini. Se ha attraversato settant’anni di tempeste ed evoluzioni drammatiche, la Formula Uno lo deve non al progresso tecnologico o all’allure di glamour e ricchezza, ma al proprio carico di sorprendente umanità.
Starà al prossimo decennio confermarlo o smentirlo. Per ora auguri, Formula Uno #F170