Questi racconti di settembre, originariamente, erano parte integrante del capitolo dedicato al Gran Premio d’Italia in Formula Uno! La vita, l’amore e i motori – Ed. Solfanelli, 2020. Voglio dedicarli a tutti voi che, dalle pagine di questo blog, mi avete fatto capire quanto contasse, per me, che tante persone mi leggessero. Grazie dalla vostra Mrs Elle.
Parte 1 di 2 – 10 settembre, giorno di promesse infrante
Lo stormire del vento fra le fronde degli alberi secolari è come il rumore delle reti a strascico trainate sulle banchine o il sordo borbottio di un tegame ricolmo in una cucina casalinga: evoca quiete, tranquillità, un trascinarsi rassicurante in una quotidianità immutabile, che accoglie, nutre e consola. Nessuno ricorda se ci fosse vento, quel 10 settembre del 1961, né se una qualche sorta di oscuro presagio si inserì nella ritmata routine degli spettatori che, quel giorno, si recarono ad assistere al Gran Premio d’Italia presso la staccata della parabolica e da lì non tornarono più.
Gli alberi, i silenziosi testimoni, c’erano, però, quel giorno in cui la morte si portò via Wolfgang Von Trips assieme a quindici appassionati, travolti dalla sua Ferrari impazzita e dal destino che accomuna i cavalieri del rischio a quanti fanno parte della loro vita. Perché quando un pilota presta solenne giuramento agli dei della velocità, ciò non coinvolge solo la sue esistenza, ma anche quella di chi, quell’esistenza, con lui la condivide: mogli, madri, compagni di box.
Quando suo figlio tornò avvolto in un sudario di rimpianti nella sua terra natale, in Germania, chissà cosa scelse di tenere con sé la madre, la signora Von Trips, per ricordare Wolfgang e quel titolo del mondo che stava per agguantare a bordo di un leggendario bolide rosso; chissà se lasciò perdere la solennità luttuosa di un monumento e preferì puntare sul lampo di gioia che illumina gli occhi dei piloti quando corrono. Nessuno lo ricorda, però forse non è un caso se accanto alla proprietà di famiglia, negli anni a venire, fu fatto costruire un kartodromo, una palestra per giovani campioni, proprio accanto al posto in cui riposava quel campione mancato, per sempre cullato dal rombo dei motori e dal battito delle belle speranze. Quel posto si chiamava Kerpen e sarebbe diventato famoso, anni dopo, per aver dato i natali a un certo Michael Schumacher, un ex ragazzo che si allenava nel kartodromo della sua città natale, destinato a diventare una leggenda vivente della Formula Uno a bordo di un bolide rosso.
La fatalità, lo schianto, il fuoco. Quante volte abbiamo visto accadere queste cose in una pista? Molte, troppe, non ancora abbastanza.
Non fu il fuoco, però, a scrivere la parola fine sul libro di Ronnie Peterson nel 1978, poco dopo l’avvio del Gran Premio, ma purtroppo un tragico e scellerato evolversi dei soccorsi. Ronnie era giovane come quei ragazzi che ogni anno popolano la pista prima della gara, stretti nelle loro tute e nei loro caschi, e pieno di talento come i migliori di loro, come e forse più della maggior parte di coloro che affrontarono assieme a lui le avventure delle piste. Quando muore un campione affermato, un idolo, il dolore per quel che è stato e ciò che ha significato si spande nel clamore generalizzato, ma quando se ne va un giovane il silenzio ferisce quei cuori genuini che piangono una vita sbocciata da poco e tutte le sue promesse tradite. Per una tragica ironia, da quel 10 settembre 1978 divennero famosi con il nome di “Leoni” i volontari del corpo della Cea Squadra Corse, addetti alla sicurezza in pista, il cui intervento fu decisivo affinché il bilancio di quell’incidente non diventasse ancora più tragico.
Due annate diverse e lontane, stesso giorno. Il dieci settembre sembra davvero essere il giorno delle promesse infrante.