È notizia recente che la Ferrari adotterà, per quello che sarà il Gran Premio numero mille, una livrea di un colore speciale, identico a quello delle prime monoposto vincenti.
Al Mugello ci saranno celebrazioni, paracadutisti e un’esibizione della monoposto perfetta, la F2004. Per tutta una serie di motivi, sarà un’occasione da ricordare, e la gara in sé offrirà comunque degli spunti interessanti di cui parlare, fosse solo per il fatto di vedere queste monoposto girare su una pista che per la prima volta ospita la Formula Uno. Ci sarà anche il pubblico, a un prezzo tristemente ben noto.
A mancare l’occasione, a parte la sua storia, sarà la Scuderia Ferrari.
C’è un non so che di tautologico nell’atteggiamento della Ferrari verso il suo immenso patrimonio storico, una tendenza, sia a livello di comunicazione che di azione, a riproporre come un mantra le gesta dei grandi vincenti, a rifugiarsi nelle parole ispiranti del Fondatore o di altre figure carismatiche che ne hanno segnato il percorso, a fare pesare sul piatto della bilancia – e in calce a tutti i Patti della Concordia – il proprio essere un virtuoso connubio di realtà imprenditoriale, longevità sportiva, forza del marchio e patrimonio culturale e di esserlo fin dal primo giorno. Questo patrimonio la Ferrari lo porta inciso in quello scudo col cavallino rampante in campo giallo, sul quale monta in tempo di vittoria per giganteggiare sui rivali e dietro al quale cerca riparo in tempi di crisi. È qualcosa di unico, di cui solo la Ferrari e chi ne fa parte può fregiarsi e chi, come me, non è nulla e nulla può pretendere solo per aver appeso qualche bandiera alla finestra, può solo immaginare quanto orgoglio e pienezza si provino a veder cucito quello scudo sulla propria divisa o quanto sia meraviglioso quel muro di mattoni contro il quale andare a sbattere. Eppure, avendo sotto gli occhi la grama presenza della Scuderia attuale, viene da pensare che questi richiami al patriottismo della nazionale rossa, questo squillare di fanfara fra record e citazioni, questo ricorrere ai propri corsi storici abbia ormai perso la sua carica vitale e la sua funzione di guida, restando un esercizio meramente narrativo. Un esercizio di stile tautologico, appunto.
Come potrebbe, altrimenti, la Scuderia il cui motto è “La Ferrari migliore di sempre è quella che dobbiamo ancora costruire” accettare di essere avvitata – ormai da anni – in un gorgo di involuzione tecnica che non le consente di sviluppare la monoposto in senso competitivo, cioè impedendole di fatto di costruirla e metterla in pista questa “Ferrari migliore di sempre”? Come potrebbe, altrimenti, continuare sbandierare il proprio Dna vincente non riuscendo da anni a tirare fuori, da quel corredo genetico, un pacchetto da Mondiale? Come potrebbe, altrimenti, rinnegare proprio quel patrimonio, una storia senza eguali di successi sportivi, tecnologici, umani e gestionali, accontentandosi e giustificando una realtà mortificante – per gli uomini in rosso e per i tifosi – sotto tutti gli aspetti? Come potrebbe, se non ammettendo che è tutto ridotto, ormai, a una chiacchiera da marketing?
Constatazioni già sentite – mi si contesterà: la Ferrari attuale non che è la copia sbiadita di quella vincente di – relativamente pochi – anni fa. No, la Ferrari attuale ne è la contraddizione: nega nei fatti ciò a cui dichiara di ispirarsi. Questa è la più amara e grave constatazione che mi suscita l’osservazione di questo scorcio di campionato.
Vado oltre. La Scuderia che osservo oggi pare, negli anni, aver smarrito il significato profondo che quelle massime scritte e condivise dappertutto incarnavano, un significato talmente potente da aver plasmato una vera e propria mission aziendale: essere i migliori non vale solo per vincere gare o per vendere molte belle auto, ma soprattutto si vede nel creare un ambiente fecondo, nel quale professionisti eccellenti sviluppano a loro volta eccellenze; un ambiente che attrae competenze e ne forma, nel quale la competitività estrema non è la scusa per dare la colpa al capro espiatorio di turno ma la ragione per la quale bisogna creare serenità, stabilità, condivisione e protezione nei confronti di chi – penso ai piloti o ai responsabili di progetto – si espone in prima linea. Nulla di tutto ciò mi trasmette l’attuale Ferrari. È sparita ogni meraviglia ed è rimasto solo un muro di mattoni.
Per concludere, solo un messaggio. Le nuove generazioni di tifosi, quelle che Liberty Media vuole attrarre, non hanno memoria diretta delle stagioni trionfanti della Ferrari ma stanno assistendo alla costruzione di un altro mito, quello dell’imbattibile Mercedes e di Lewis Hamilton, una feroce predatrice in pista – e nei tavoli che contano – dal volto sorridente ed eco-friendly nel paddock – e nella comunicazione. Mercedes ha inventato l’automobile, ma l’automobile per antonomasia, quella che ogni bambino disegna d’istinto, è sempre stata quella rossa: il successo più grande di Stoccarda potrebbe essere proprio questo, vale a dire relegare la Ferrari nella soffitta polverosa delle leggende che furono e sostituire la simbologia vincente di Maranello con la propria.
Questa sarebbe una sconfitta davvero dura da superare.