Un’altra stagione è finita. Una stagione anomala, straordinaria nel senso etimologico del termine, vale a dire “fuori dall’ordinario”, per le piste su cui si è corso, per il calendario stravolto, per gli autodromi deserti, per i trionfi inattesi, per i ritorni alla competitività e al podio di tante scuderie del midfield come McLaren e Renault. Caratteristiche che hanno dato al Campionato di Formula Uno 2020 diversi spunti di interesse e un tocco di vivacità, un balsamo insperato a lenire le ferite di un anno doloroso , tuttavia assolutamente non sufficienti a cancellare l’ordinarietà di quello che era un verdetto già scritto, cioè l’ennesima stagione di dominio assoluto della Mercedes e di Lewis Hamilton.
Spiace, soprattutto per chi aveva cullato l’illusione che sarebbe stato l’anno buono per qualcuno, magari Verstappen, per interrompere questa striscia positiva che strozza ormai da 6 anni ogni sforzo dei concorrenti. Spiace che una randellata di realtà abbia spazzato via speranze genuine spesso alimentate da inutili argomentazioni sul nulla: la tigna, il talento, la passione, la buona volontà, l’ambizione, le buone idee, i quattrini non bastano da soli ad affiancare– figuriamoci a sorpassare – un gruppo, come l’attuale Mercedes. Un gruppo di bravi professionisti tenuti insieme da un’organizzazione ferrea, guidati da una dirigenza lungimirante, esigente ma presente, concentrata sui propri obiettivi e con la missione di far splendere la stella del proprio campione, che ha saputo costruire sul passato – Michael Schumacher – e non ha trascurato il futuro – George Russel . Ma non sono i record, le coppe, le innovazioni quello che colpisce della corazzata tedesca: quello che dà la misura della loro forza è che danno l’idea che gli riesca senza fatica, come Yuri Chechi sospeso agli anelli nella posizione della verticale durante la finale per l’oro ad Atene 2004, immortalato mentre compiva uno sforzo sovrumano con l’espressione di chi sta sorseggiando una bibita al mare. Come se non fosse difficile.
La storia, è cosa nota, la scrivono i vincitori. La Mercedes non sta semplicemente riscrivendo i record e gli albi d’oro della Formula Uno, ma la sua stessa storia. Sta sostituendo le proprie figure, i propri stilemi, nella narrazione e nei paradigmi di questo sport, perché ne è diventata il punto di riferimento, la pietra di paragone, il polo di attrazione per piloti, tecnici, professionisti. Senza scomodare inutili paragoni con le ere passate, ma pensando in proiezione, con buona pace di chi gli imputa ingiusti vantaggi da regolamenti proni o test segreti.
E in tutto questo mi chiedo: dov’è la Ferrari? Non è nella ghiaia di Hockenheim o nel motore che si smorza in Bahrain, non è nel progetto incompiuto di Marchionne o nelle pieghe di una fumosa squalifica-che-non-è-una-squalifica. Non è nelle belle speranze di Leclerc e nella bella anima di Vettel, non è nella tenera ostinazione dei tifosi o nella leggenda della sua storia. La Ferrari è introvabile.
Nell’anno in cui festeggia i suoi mille Gran Premi, la Scuderia batte il poco lusinghiero primato di squadra più soprassata dal 1983.
1983.
Ai fan storici non farà impressione, abituati come sono ai lunghi digiuni. Ma non si può fare a meno di ricordare che quegli anni erano comunque illuminati rispetto a quelli odierni, sprofondati in un grigiore impiegatizio inspiegabile, con la dirigenza impegnata a fare quello che i detrattori insinuano che facciano i piloti di Formula Uno: girare in tondo e basta. Ecco cos’è diventata la Scuderia che ha più di ogni altro contribuito a fare della Formula Uno un meraviglioso spettacolo di uomini e macchine che dura da settant’anni: l’emblema di un giudizio malinteso e superficiale.
Sapete cosa ricorderanno quelli che nel 1983 non erano ancora nati, quelli che si affacciano oggi alle gare, magari avendo come viatico preferenziale i social network? La grande Mercedes guidata dal pilota più titolato al mondo, l’imbattibile squadra che sbaglia solo quando è ininfluente, l’azienda capace di dosare forza, schiacciando gli avversari, e leggerezza, comunicando con allegria con i propri fan. Come se non fosse difficile.
Ed è ingiusto per chi, come ha sottolineato Sebastian Vettel nel suo ultimo, emozionante team radio, è davvero la Ferrari – vale a dire uomini e donne che indossano con orgoglio le insegne rosse e con orgoglio mettono la loro dedizione al servizio di una causa – che la leggenda sia diventata un pamphlet di uno scrittore mediocre. La Ferrari che rifondava se stessa e convinceva il pilota più forte a mettersi in gioco per riportarsi sulla vetta, che metteva uomini forti e carismatici ai vertici, professionisti capaci di orientare il lavoro e difendere il gruppo, la Ferrari che vinceva contro tutti negli anni duemila dopo aver sofferto i loro sorpassi negli anni ottanta non è più qui. Annaspa per la schifesima posizione in gara e spera in una qualche celeste combinazione per saltare qualche casellina in qualifica, spreca la buona volontà e i talenti di ingegneri e piloti, rimescola continuamente il proprio organigramma come in una folle partita a tresette. La Ferrari, la mia Ferrari, è introvabile perché non è da nessuna parte.
La Ferrari, dopo aver assistito alla distruzione delle proprie certezze, si è imbarcata da anni in un viaggio alla ricerca della ricetta miracolosa, ponendo sulle spalle di questo o di quello, di Alonso, Vettel o Leclerc, l’onere di dare le risposte a tutte le domande. Da anni, la risposta che riceve è un verdetto incompiuto, come un laconico e inspiegabile “42”, mentre a noi non resta che sederci in una tavola calda a guardare la fine di tutto quanto, ogni anno.
Una volta un uomo saggio ha detto che il rosso, cioè la passione, il sacro fuoco dei motori, non dipende dal fatto che si tifi Ferrari. Il rosso, quel rosso, ti viene dal terreno che calpesti, ti scorre dentro come una linfa vitale e non c’è niente che possa togliertelo, pure se ti vesti di giallo. O di British Racing Green.
Non c’è bisogno di sostenere la Ferrari per essere amanti di questo sport meraviglioso. Perciò ti dico addio, Ferrari, e grazie per tutto il rosso.
A voi arrivederci, alla prossima gara.
P.S.: oppure in libreria!