Il Regolamento Tecnico Formula 1 2017 è, ormai, definito e pubblico. Come noto, radicali cambiamenti riguarderanno in particolar modo la veste aerodinamica e le misure degli pneumatici. Rivisitazioni marginali, al contrario, toccheranno il motore e l’intera “power unit”. Concentrandoci più specificamente sull’unità endotermica, ecco cosa emerge analizzando il Regolamento 2017. I motori saranno gli ormai familiari 6 cilindri in V di 90°, 4 tempi, 4 valvole per cilindro (2 di aspirazione, 2 di scarico) di 1600cc (+0/-10cc di tolleranza) di cilindrata, sovralimentati mediante un singolo turbocompressore a geometria fissa. Il regime massimo di rotazione è pari a 15,000 giri/minuto, il consumo oltre i 10,500 giri/minuto pari a 100 kg/h, sotto tale soglia è identificato mediante la seguente formula: kg/h: 0,009 rpm (regime di rotazione, n.d.r.) + 5,5.
Il Regolamento contempla una miriade di limitazioni e vincoli, i quali investono il numero ed il posizionamento degli scarichi (terminale principale e condotti della valvola waste-gate), collocazione del turbocompressore, posizionamento e fattura delle valvole e dell’albero motore (quest’ultimo deve contemplare solo 3 perni di banco), alesaggio (pari a 80 mm, +/- 0,1 mm), diametro degli steli valvole (non inferiore a 4,95 mm), peso minimo dell’intera “power unit” (145 kg), baricentro della “power unit”, materiali di costruzione e così via. Tra i nuovi vincoli, troviamo il diametro dei perni di banco dell’albero motore (non meno di 43,95 mm), il diametro dei perni di biella (non meno di 37,95 mm), il valore massimo del rapporto di compressione geometrico di ciascun cilindro (18,0), il peso minimo del pistone completo (non inferiore a 300 g), il peso minimo della biella completa (non inferiore a 300 g), il peso minimo dell’albero motore (misurato dalla mezzeria dei perni di banco di estremità; non inferiore a 5300 g).
Da molti anni, i motoristi impegnati in Formula 1 adottano sistemi di distribuzione che prevedono due alberi a camme in testa e valvole azionate da molle pneumatiche. Questo sistema, benché assai redditizio e incarni lo stato dell’arte circa i motori da competizione ad alte prestazioni, non costituisce la sola via percorribile. Anche oggi. Esistono, infatti, due alternative (badate bene alla parola: alternative…) che potrebbero trovare campo libero anche in Formula 1. La prima strada è la distribuzione desmodromica – biglietto da visita di casa Ducati (non per mera immagine fine a se stessa bensì per ponderate scelte tecniche), vincente in Formula 1 con le imprendibili Mercedes W196 nel biennio 1954-1955, sperimentata dalla Toyota nei primi Anni 2000 per i suoi V10 aspirati 3000cc di Formula 1 – soluzione che consente il raggiungimento di elevati regimi di rotazione. La seconda strada è la distribuzione ad aste e bilancieri.
Ebbene, questa strada tecnica, oggi ritenuta a torto obsoleta e non redditizia, in realtà presenta (come tutte le altre soluzioni, del resto) pro e contro. Il maggior “contro” è, senza dubbio, il non assecondare elevatissimi regimi di rotazione. Tra i “pro”, un risparmio di peso ed un abbassamento del baricentro, conseguente ad una minor altezza del motore. Eppure, esistono eclatanti precedenti, in ambito competizione, di motori provvisti di distribuzione ad aste e bilancieri risalenti a pochi decenni fa. Anni, peraltro, in cui già si riteneva arcaica questa tipologia di distribuzione.
Ci riferiamo ai propulsori Turbo CART. Analizziamo più nel dettaglio.
Le defunte ma indimenticate competizioni USAC-CART (acronimi di United States Auto Club e Championship Auto Racing Teams), grazie a regolamenti elastici e all’insegna della varietà progettuale, offrono la possibilità ai tecnici motoristi di sbizzarrirsi nella realizzazione dei più disparati motori. Sfruttando appieno il flessibile regolamento tecnico vigente nelle competizioni d’oltre Oceano riservate alle monoposto, pertanto, le Case e i motoristi sfoderano unità con distribuzione ad aste e bilancieri…sovralimentati! Negli Anni ’70 (1973-1975), la Eagle Smokey Yunick presenta un V8 Chevrolet small-block (3400cc) ad aste e bilancieri, sovralimentato mediante due Turbo. Nel 1976, è il turno dell’Indy 209 AMC (American Motors Corporation), imponente ma potente V8 Turbo stock-block con distribuzione ad aste e bilancieri. La sua imponenza in altezza deriva, soprattutto, dalla lunghezza delle trombette di aspirazione e dal cassoncino posto a monte di esse.
Negli Anni ’80, arco temporale in cui gli aste e bilancieri da corsa appaiono, agli occhi dell’appassionato comune (specie europeo…), ormai e già obsoleti, ecco una nuova generazione di siffatti motori Turbo, alimentati a metanolo, per le competizioni USAC-CART. Il regolamento, infatti, contempla varie tipologie di motori, tra cui “pure racing” sovralimentati ad alberi a camme in testa, 4 valvole per cilindro di 2650cc, “pure racing” aspirati ad alberi a camme in testa di 4500cc di cilindrata, stock-block sovralimentati ad aste e bilancieri, 2 valvole per cilindro, massimo 8 cilindri e 3500cc di cilindrata.
Chevrolet, Buick e Ilmor-Mercedes abbracciano questa ultima alternativa.
Se il V6 Chevy stock-block non riscuote il successo sperato (scarsi risultati in gara, motore dalle dimensioni eccessivamente abbondanti), Buick e Ilmor-Mercedes colpiscono il bersaglio. La Buick lo fa mediante un V6 Turbo, il 3300 Indy, motore sincero – ma non completamente affidabile – che, tuttavia, si toglierà buone soddisfazioni (poche se raffrontate all’enorme potenziale del motore stesso) dalla metà degli Anni ’80 sino agli Anni ’90 inoltrati. Tra i risultati di maggior prestigio, citiamo, anzitutto, la incredibile doppietta rifilata ai Cosworth DFX durante le qualifiche della 500 Miglia di Indianapolis del 1985. In quella occasione, Pancho Carter e Scott Brayton issano le rispettive March-Buick ai primi due posti della griglia di partenza. Tuttavia, entrambi si ritirano dalla corsa dopo pochi passaggi: Carter al 6°, a seguito della rottura della pompa dell’olio, Brayton al 19° per la rottura del Turbo.
Nel 1988, Jim Crawford, dopo aver accarezzato la vittoria e un piazzamento nei primi tre posti, giunge 6° alla Indy 500 al volante di una Lola T87/01-Buick del King Protofab Racing, risultato bissato da Scott Brayton nella edizione del 1989 (Lola-Buick). Nel 1992, invece, Al Unser Sr. termina al 3° posto la Indy 500 al volante di una Lola-Buick. In quella stessa edizione, Roberto Guerrero su Lola T92/00-Buick ottiene la pole-position a 374,14 km/h, salvo, poi, abbandonare la corsa, a seguito di un incidente, già durante il cosiddetto “pace lap”, il giro di riscaldamento che precede la partenza.
Questi motori, aggiornati e sotto le insegne della Menard, sono impegnati in CART anche negli Anni ’90 inoltrati. Nel 1995, Arie Luyendyk ottiene il 2° tempo in qualifica e il 7° posto in gara alla Indy 500; Scott Brayton, in quella stessa edizione, ottiene la pole-position a 372,73 km/h. Entrambi sono al volante di una Lola T95/00-Menard Buick.
In occasione della Indy 500 del 1996, è ancora Brayton a firmare la pole-position a bordo della Lola T95/00-Menard Buick. Tuttavia, il veloce pilota americano troverà la morte proprio sul tracciato dell’Indiana il 17 maggio (la gara è in programma il 26 maggio), mentre prova l’auto di scorta. Il sostituto, il veterano Danny Ongais, terminerà la corsa al 7° posto.
Il V6 Buick Turbo di 90° (singolo turbocompressore e assenza di intercooler, come da regolamento), benché leggermente più pesante e alto di un V8 Cosworth DFX, è apprezzato dai piloti non solo per la esuberante potenza (oltre 800 CV a 8400 giri/minuto, rapporto di compressione 9,25:1 nella versione 1985, circa 800 CV a 9200 giri/minuto, rapporto di compressione 10,5:1 nella versione 1992), ma, soprattutto, per la generosa coppia ai bassi-medi regimi.
Nel 1994, infine, la 500 Miglia di Indianapolis è teatro di un colpo di scena da maestro. Lo sceneggiatore e regista di tale evento porta il nome di Mario Illien, rinomato motorista svizzero fondatore della Ilmor.
In quell’anno, la Ilmor (azienda che, in precedenza, ha fabbricato i vincenti V8 Indy commissionati dalla Chevrolet) realizza in esclusiva per il Marlboro Team Penske, e solo per la Indy 500, il 265E, ribattezzato Mercedes-Benz 500I a seguito di accordi commerciali. Nelle altre gare della stagione CART 1994, infatti, la PC23 viene spinta dal V8 in V di 82° Ilmor 265D (ma non ribattezzato Mercedes-Benz), bialbero in testa e 4 valvole per cilindro di 2650cc, ovviamente monoturbo. Grazie ad una monoposto perfetta, due motori competitivi in ogni tracciato e un terzetto di piloti di prim’ordine, il Team Penske domina la stagione CART 1994: Al Unser Jr. vince il titolo, precedendo i compagni di scuderia Emerson Fittipaldi e Paul Tracy.
L’Ilmor 265E è un 8 cilindri in V di 72° di 3500cc di cilindrata, sovralimentato mediante un singolo turbocompressore Garrett Air Research TA74 posto – incassato e nascosto – tra motore a cambio. Le misure di alesaggio e corsa sono pari a 97 mm x 58 mm. Presenta 2 valvole per cilindro: il diametro della valvola di aspirazione è di 52,5 mm, quello della valvola di scarico pari a 39,7 mm. Il rapporto di compressione è di 11:1. La potenza massima erogata, in condizioni ambientali ottimali, è di 1024 CV a 9800 giri/minuto ad una pressione di sovralimentazione di 1,86 bar (la potenza massima, generalmente, si attesta tra 965 CV e 970 CV; il regime massimo di rotazione può toccare i 10,500 giri). La coppia massima è di 755 Nm a 8000 giri/minuto. È alto 654 mm (i condotti di aspirazione, a monte dei quali si trova l’airbox, risultano sporgenti verso l’alto), lungo 561 mm, largo 510 mm, il peso è di 123 kg.
La peculiarità di tale motore risiede, appunto, nella distribuzione ad aste e bilancieri. Le aste, corte e leggerissime, vengono azionate mediante bilancieri a dito che insistono sull’albero a camme unico, quest’ultimo mosso da ingranaggi. Ogni valvola di ciascun cilindro è azionata dal proprio gruppo asta-bilanciere. Il richiamo delle valvole avviene mediante molle elicoidali, come da regolamento.
La Indy 500 del 1994 è dominata dalla Penske PC23 (telaio 007) motorizzata dall’ormai leggendario Ilmor 265E/Mercedes-Benz 500I. Al Unser Jr. ottiene pole-position (366,96 km/h) e vittoria. La splendida e ormai mitica monoposto è progettata da Nigel Bennett.
In quell’anno, tuttavia, un secondo motore ad aste e bilancieri sfida il tracciato dell’Indiana. Si tratta del Greenfield GC209T, bel V8 (più basso del V8 Ilmor-Mercedes) che, tuttavia, a bordo di una Lola T93/00 appositamente modificata dalla Riley & Scott, fallisce la qualificazione. I piloti designati sono Michael Greenfield e Johnny Parsons.
La sfida, dunque, anche alla luce di questo doveroso excursus storico, è solleticante. Ardua ma percorribile. Almeno sperimentabile. I motori CART, infatti, palesavano regimi di rotazione non distanti dagli attuali regimi dei V6 Turbo di Formula 1. Le odierne unità turbocompresse di F1 (che debbono sottostare a vincoli si consumo), infatti, si attestano attorno agli 11,000-12,000 giri/minuto (regime massimo); la soglia massima regolamentare dei 15,000 giri/minuto è, quindi, ben lontana dall’essere lambita. Si tratta, ricordiamo, di 6 cilindri di 1600cc, motori che – data la piccola cilindrata – debbono necessariamente realizzare elevati regimi di rotazione. Inoltre, essi sono dotati di due alberi a camme in testa e richiamo pneumatico delle valvole. Il V6 Buick e il V8 Ilmor (entrambi di 3500cc) lambivano e superavano (nel caso dell’Ilmor) i 10,000 giri/minuto, benché di cilindrata superiore, aste e bilancieri e con classiche molle elicoidali quale richiamo delle valvole. E con 20-30 anni di tecnologia a separare gli uni dagli gli altri. Un eccellente risultato prestazionale e tecnologico, dunque, per i motori CART che furono.
Inoltre, oggi, un eventuale sistema di distribuzione ad aste e bilancieri si avvarrebbe del richiamo delle valvole pneumatico, soluzione che asseconderebbe ancor di più il raggiungimento di ragguardevoli regimi di rotazione. Infine, menzioniamo i casi di Corvette e Viper, Gran Turismo americane che, spinte dai loro V8 e V10 aspirati ad aste e bilancieri (di cilindrate ragguardevoli, specie la Viper, ma capaci di superare i 6000 giri/minuto), ancora sono in grado di sfidare e battere le motorizzazioni bialbero in testa e 4 valvole per cilindro.
Formula 1 è (almeno dovrebbe) sinonimo di osare, cercare strade alternative – anche apparentemente “bizzarre” e desuete – alla ricerca del miglior compromesso. Perché no?
Scritto da: Paolo Pellegrini