Le stagioni agonistiche trascorrono rapide, i regolamenti tecnici mutano, le vetture si evolvono, ma una domanda aleggia costante sulle teste dei tecnici progettisti e degli appassionati: conta di più il telaio o il motore?
Si tratta di un’annosa questione tecnica che divide addetti ai lavori e pubblico appassionato. Una questione, invero, più che mai attuale.
Partiamo proprio dal campionato in corso, un 2020 il quale ci sta offrendo, anche in tal senso, spunti e indicazioni degni di nota.
A dominare la stagione in corso è la Mercedes F1 W11, azionata dalla power unit Mercedes M11 EQ Performance. Una monoposto — quella condotta da Lewis Hamilton e Valtteri Bottas e tecnicamente curata da James Allison nel ruolo di Direttore Tecnico — che palesa numerose qualità.
La vettura anglo-tedesca, parimenti alle “sorelle” che l’hanno preceduta, mostra chiaramente tutte quelle peculiarità che rendono competitiva una qualsivoglia vettura. Ci riferiamo al proverbiale compromesso tra telaio, aerodinamica e motore.
La F1 W11 è il tipico esempio di monoposto di F1 vincente: motore potente ma sfruttabile, eccelse doti telaistiche, aerodinamica efficiente su qualsiasi tracciato — dai più lenti ai più veloci — e in ogni condizione meteo.
Passano le epoche ma gli ingredienti che rendono vincente una monoposto di F1 non cambiano.
Anche in occasione del GP di Toscana in quel del Mugello, abbiamo apprezzato le magistrali qualità di maneggevolezza della Mercedes F1 W11. Una vettura che, sugli impegnativi saliscendi del circuito toscano, non ha mostrato incertezze.
Ad un motore sempre pronto (nonostante le limitazioni regolamentari susseguitesi negli ultimissimi anni al fine di arginare lo strapotere Mercedes…), si abbina una ciclistica progettata a regola d’arte.
Hamilton e Bottas non hanno lamentato sottosterzo o sovrasterzo. Le immagini forniteci dalla camera car non mentono. Mentre gli altri piloti erano costretti a “remare” per tenere nella corretta traiettoria le rispettive vetture (specie nelle curve ad ampio raggio, quale, ad esempio, la ostica Bucine), l’inglese ed il finlandese della Mercedes avevano tra le mani una vettura “chirurgica”: volante fermo, nessuna correzione necessaria in inserimento, percorrenza ed uscita curva. Tradotto: Hamilton e Bottas hanno dominato.
Una qualità, questa, riscontrabile su tutte le più significative vetture F1, del presente e del passato.
Ripercorrendo brevemente e velocemente la storia della Formula 1, ci si accorge di un fatto: tutte (o quasi) le vetture vincenti erano e sono caratterizzate da importanti qualità telaistiche-ciclistiche-aerodinamiche. Dalle Alfa Romeo 158 e 159 alle Cooper-Coventry Climax del biennio 1959-1960, dalle Lotus alle altre vetture di scuola britannica, dalla Mercedes W196 del biennio 1954-1955 alla Maserati 250F, dalle Williams e McLaren degli Anni ’80 e ’90 alle Ferrari dell’era Schumacher, passando, infine, per le Red Bull-Renault di “vetteliana” memoria e le Mercedes dell’era (ancora in atto) Turbo-ibrido: generazioni di auto accomunate dalla assoluta bontà di telaio, sospensioni, aerodinamica.
Le suddette doti telaistiche, sovente, andavano e vanno a compensare la mancanza di cavalleria. Iniziamo da questi esempi: le Cooper T51 e T53-Coventry Climax iridate con Jack Brabham nel biennio 1959-1960 e le Red Bull-Renault (modelli RB6, RB7, RB8, RB9) degli anni che vanno dal 2010 al 2013, iridate con Sebastian Vettel.
In entrambi i casi, benché in presenza di motori in debito di cavalli rispetto ad altre unità, tanto le Cooper quanto le Red Bull hanno potuto imporre il proprio dominio in virtù di doti telaistiche-ciclistiche-aerodinamiche impareggiabili.
La tecnica da competizione non è una scienza esatta. Ed è proprio questa sua imprevedibilità che rende il motorsport così affascinante. Alla luce di ciò, ecco che, in occasione del GP di Francia del 1961, Dan Gurney conduce al 2° posto la Porsche 718. Un arrivo in volata, che vede trionfare la potente Ferrari 156 condotta da Giancarlo Baghetti.
Il circuito, però, è quello di Reims: velocissimo, adatto sì alla Ferrari ma, sulla carta, sfavorevole alla monoposto tedesca. Tra il 6 cilindri di Maranello (siamo nel primo anno dei motori aspirati di 1500cc) ed il flat 4 raffreddato ad aria di Weissach ballano almeno 25-30 CV di differenza a favore del motore italiano.
Un gap che la Porsche colma, in parte, con la 804, spinta dal nuovo 8 cilindri contrapposti. Questa vettura vince, grazie all’immenso talento di Dan Gurney, il GP di Francia 1962, sempre sul tracciato di Reims. Ad ogni modo, il propulsore tedesco risulta ancora meno potente del 6 cilindri Ferrari e del V8 BRM.
Eclatante il caso della iridata Williams FW14B del 1992. Azionata dall’ottimo V10 Renault (aspirato, 3500cc), la monoposto curata da Patrick Head e Adrian Newey fa della bontà telaistica-ciclistica-aerodinamica il proprio punto di forza. Un bilanciamento d’assetto ed aerodinamico sempre ottimale, ottenuto soprattutto grazie a sospensioni attive particolarmente efficienti e all’avanguardia (aerodinamica mobile rispetto al suolo). Un equilibrio ideale in grado di rendere la Williams una vettura che sembra andare sui binari.
Contraltare delle monoposto in cui la bontà telaistica prevale sulla bruta cavalleria sono, appunto, quelle monoposto che fanno della potenza del propulsore la propria carta da giocare.
In questo senso, la Ferrari ha fatto scuola. Le monoposto di Maranello, infatti, hanno spesso palesato qualità telaistiche inferiori alla concorrenza, italiana ed estera. Una lacuna, tuttavia, ottimamente compensata da eccelsi motori e da una invidiabile affidabilità generale.
Elementi che, uniti alla bravura dei piloti, hanno consentito al Cavallino di aggiudicarsi numerosi titoli iridati.
La tecnica motoristica non è una scienza esatta, dicevamo. Nel 1981, Gilles Villeneuve esprime al meglio tale concetto. Il canadese, infatti, porta al successo la globalmente poco competitiva Ferrari 126CK in due GP sulla carta ostici alla vettura italiana: Monaco e Jarama.
Caratterizzata da un già competitivo V6 Turbo di 1500cc (più potente delle unità aspirate di 3000cc), la 126CK palesa, però, doti telaistiche ed aerodinamiche globalmente inferiori rispetto alla miglior concorrenza britannica e francese. Ciononostante, Villeneuve riesce a domare con abilità la scorbutica e nervosa 126CK in circuiti, sulla carta, poco consoni ai Turbo di prima generazione e a vetture non particolarmente equilibrate sotto l’aspetto telaistico.
Compensare col solo motore, però, non è sufficiente. Se c’è una cosa che la storia del motorsport ha insegnato è che, percentualmente, le doti telaistiche ed aerodinamiche riescono a fare la differenza e a compensare maggiormente altre lacune tecniche.
Eloquente il caso delle Brabham BT19 e BT20, iridate con Jack Brabham e Denny Hulme nel 1966 e 1967. Spinte dai V8 aspirati di 3000cc Repco 620 e 740, le monoposto progettate da Ron Tauranac incarnano appieno la superiorità telaistica rispetto alla bruta cavalleria.
I V8 Repco — derivati da un basamento di serie Oldsmobile F85 — palesano un mix di soluzioni semplici e inedite: monoalbero, camera di combustione a cuneo per il 620, camera di scoppio Heron per la versione 740, due valvole per cilindro, canne cilindri riportate in ghisa, ecc. Tuttavia, benché robusti e affidabili, non erogano potenze così eclatanti.
Siamo, infatti, nell’ordine dei poco più di 300 CV a fine 1966 e circa 350-360 CV nel 1967. Potenze, dunque, inferiori ai 360 CV del V12 di 60° Ferrari del 1966 (saliti a circa 390-400 nel 1967), agli oltre 425 CV del V12 Honda RA273E, agli ancora oltre 400 CV del BRM H16 P75 e ai poco più di 400 CV del debuttante Cosworth DFV (1967).
Ma le tanto semplici quanto efficaci monoposto disegnate da Tauranac costituiscono lo stato dell’arte in quanto a telaio (un eccellente traliccio in tubi) e sospensioni. Qualità che, unite alla elastica erogazione del V8 di 90° australiano, consentono alla Brabham di sbancare contro ogni pronostico il biennio 1966-1967.
E veniamo ai giorni nostri. In questo 2020, parimenti alle passate stagioni, la Mercedes esprime il potenziale globale superiore. Motore e, soprattutto, un complesso telaio-aerodinamica all’avanguardia. La Red Bull è la monoposto che più si avvicina alle prestazioni delle monoposto del team di Brackley.
La scuderia di Milton Keynes ha schierato e schiera monoposto che, grazie ad un gruppo telaio-aerodinamica di prim’ordine, sono riuscite e riescono spesso e volentieri a compensare le carenze — più o meno vistose — dei propri motori, Renault prima, Honda oggi.
Un 2020 che esalta il nocciolo del nostro articolo. Se da un lato abbiamo la sempre competitiva Mercedes F1 W11 ed una Red Bull RB16-Honda che, provvista di una power unit non all’altezza del V6 ibrido realizzato a Brixworth, si issa quale seconda forza del campionato, dall’altro troviamo una Ferrari SF1000 che arranca su entrambi i fronti.
Per le ragioni ormai note, la SF1000 palesa una power unit ormai non più all’altezza. Una carenza di cavalli, tuttavia, non compensata da telaio, ciclistica, aerodinamica.
I risultati non mentono: la SF1000 è vettura non solo in debito di cavalleria ma anche sofferente sul piano telaistico-aerodinamico. Sebastian Vettel e Charles Leclerc, dunque, hanno tra le mani una vettura nervosa, imprecisa, poco agile.
Le insidiose curve del Mugello — parimenti a quelle dell’Autodromo di Monza — hanno esaltato le lacune telaistiche, ciclistiche ed aerodinamiche della monoposto di Maranello. Assai imprecisa e faticosa da domare in curva, velocità di punta inficiate da un eccessivo drag.
Una totale involuzione che ha consentito alla McLaren MCL35-Renault, alla Renault R.S. 20, alla Racing Point RP20-Mercedes e alla Alpha Tauri AT01-Honda di issarsi, ormai stabilmente, davanti alle Rosse di Maranello.
Persino la Williams FW43-Mercedes si sta levando dalle sabbie mobili delle ultime posizioni, arrivando a lambire la zona punti, in lotta — tanto in qualifica quanto in gara — con le monoposto motorizzate Ferrari (Ferrari SF1000, Haas VF-20 e Alfa Romeo/Sauber C39).
La storia ed il presente della F1, in definitiva, affermano che un buon telaio, una buona ciclistica ed una efficiente aerodinamica riescono quasi sempre a fare la differenza.
Una vettura di F1 è un complesso compromesso. Attualmente, la Mercedes F1 W11 incarna al meglio tale compromesso.
Come recitava l’iconica pubblicità Pirelli del 1994, “Power is nothing without control”…