“Se avessi perso la macchina come l’aveva persa Sainz due giri prima e non importa la velocità, 200 o 100 orari, sarei morto, semplicemente.”
Le comprensibile rabbia di Pierre Gasly è l’espressione di ferite aperte e mai del tutto rimarginate. Prima Jules Bianchi, poi Anthoine Hubert, due amici, ancor prima che colleghi, persi in otto anni. Sentire il suo sfogo a fine gara fa male, perché Suzuka non è il Colosseo e i piloti non sono dei gladiatori, o per lo meno non lo sono più oggi, nel 2022. Ecco perché nello sport, espressione massima della vita, evocare la morte spaventa, incupisce e risveglia pensieri impensabili.
Ma Gasly ha sbagliato. Pierre conosceva il punto dell’incidente, c’era passato qualche istante prima, raccogliendo anche un pannello pubblicitario catapultato in pista dal botto di Sainz. E ciò non gli ha impedito di sfrecciare in regime di Safety Car (un attimo prima della bandiera rossa) con una media di 200 km/h proprio lì, rischiando non solo di uccidersi, ma soprattutto di uccidere. Perché in quel punto c’erano dei commissari di pista, perché sempre in quel punto poteva esserci Carlos, magari ferito…
L’errore del pilota Alpha Tauri è frutto di un sistema di valori e priorità complessivamente sbagliato, che coinvolge scuderie, piloti, FIA, Formula Uno, televisioni e spettatori. Perché in questo mondo si tende troppo spesso a negoziare la sicurezza per lo show.
Eppure la soluzione c’è, ma non piace a nessuno: ammazzare il rischio, limitando in parte la spettacolarità e la spettacolarizzazione dell’evento.
Nella vicenda Gasly, sia chiaro, la federazione non ha commesso nessun errore procedurale o di forma, ma non ha utilizzato il buon senso. Per buon senso si intende la percezione e la lettura d’insieme della singola vicenda, comprendendo anche fattori come la condizione meteorologica e lo stato psicologico dei piloti in pista.
Ammazzare il rischio vuol dire cercare di abbattere l’agonismo e il cinismo di team e piloti che, annebbiati dalla foga della competizione, sono i primi a mettersi in condizioni di pericolo.
Basti pensare alla partenza da fermo di Suzuka: nessun team e nessun pilota ha optato per la mescola Full Wet (molto più adatta alle condizioni critiche della pista), sacrificando l’incolumità individuale e collettiva in virtù della performance.
Oppure allo stesso Gasly, che passa a 200 km/h di fronte a un incidente per non perdere la temperatura della gomma.
O addirittura a noi spettatori, che ci siamo lamentati di un Gran Premio, come quello di Monza, finito in regime di Safety Car.
Proprio a Monza, dove il debuttante Nick De Vries ha scaldato le gomme, sotto richiesta dei box, a pochi metri da un trattore (sempre in regime di Safety Car).
Se i protagonisti e gli appassionati della Formula Uno osservano questo sport dalla prospettiva dello spettacolo e non da quella della sicurezza, allora dev’essere la federazione a imporre un cambiamento nelle regole del gioco.
Magari mettendo qualche bandiera rossa in più e bloccando la gara in situazioni di rischio, magari penalizzando i piloti che attentano all’incolumità degli altri, anche a causa di episodi fortuiti, come quello capitato tra Verstappen e Norris nel corso della qualifica di Suzuka.
Proprio il sistema delle penalizzazioni dovrebbe rappresentare il punto di partenza per un cambio di passo. Troppo spesso si tende penalizzare più chi trae vantaggio sportivamente con una manovra illecita, che chi mette in pericolo fortuitamente o meno l’incolumità degli altri uomini in pista. Bisogna terrorizzare i team sportivamente, per sensibilizzarli al tema della sicurezza.
Perciò se realmente si vuole portare la lancetta del rischio vicino allo zero, premettendo il fatto che il rischio zero non esiste, il sacrificio dev’essere collettivo, perché è fondamentale ricordare che la sicurezza viene sempre prima dello spettacolo.