Quest’anno, per la Ferrari, sono settanta. Settant’anni di una storia irripetibile, unica. Settanta sono tanti e, se la Ferrari è così tanta, lo deve anche al suo essere un’icona della cultura moderna, un simbolo, un sogno. Un sogno che non avrebbe potuto realizzarsi senza colui che per primo l’immaginò, nella penombra della sua officina meccanica a Modena. Un sogno dipinto nei colori di Enzo Ferrari.
I capelli bianchi. Gli occhiali neri. L’inchiostro viola. E quelle auto rosse. Quattro colori dello spettro restituiscono i tratti distintivi dell’icona Enzo Ferrari nell’immaginario collettivo ma tratteggiano anche, con sapienza artistica, un’efficace ritratto dell’uomo che era sempre un passo avanti, anche dell’icona stessa che rappresentava.
Enzo Ferrari ha vissuto molte vite – pilota, meccanico, imprenditore, padre – e ha avuto una vita lunghissima e intensa, che gli ha sbiancato i capelli e lo ha reso un immortale. Duro, tanto da sopportare il sole feroce delle estati e il freddo lattiginoso degli inverni della sua terra emiliana, ma anche le mille tempeste di un’esistenza avventurosa. Determinato, tanto da far tesoro di ogni singolo granello di polvere respirato nelle corse fra strade e piste per mettere su un’azienda che avrebbe resistito alla polvere del tempo. Diretto, nel perseguire un ideale di nitore stilistico che rende sovrapponibili le sue auto con l’idea stessa di bellezza così come nell’affrontare le situazioni: celebri le sue sentenze, i suoi fermi dinieghi, i suoi rari e sinceri apprezzamenti. Difficile, per tutti coloro che lo amarono come per tutti coloro che lavorarono con lui e per lui, a causa di un carattere ostinato e accentratore che era quanto di più lontano dall’emiliano godereccio e bonaccione consegnatoci dall’iconografia popolare. Tratti distintivi dell’uomo, questi, proiettati nell’icona che egli stesso ha contribuito a creare.
Enzo Ferrari indossava gli occhiali scuri anche al chiuso, nel suo ufficio al pianterreno dal quale dominava ogni cosa. Era un vezzo o forse una forma estrema di controllo: guardava senza essere visto ma non consentiva a nessuno di vederlo benché lo guardasse. Nel riflesso di quelle lenti nere, quando era giunto al limitare dei suoi giorni terreni, forse rivedeva le diapositive di quel viaggio che era stata la sua vita, lunga quasi novant’anni e vissuta sull’orlo dei trecento orari. Vide sua madre, che gli consentì di ipotecare la sua casa natale pur di finanziare la sua scuderia di auto da corsa, assieme alla madre che confessò di aver ucciso il 14 luglio del 1951: quella madre si chiamava Alfa Romeo e quel giorno fu sconfitta dalla sua giovane figlia Ferrari. Vide suo figlio, Alfredo detto Dino, che non gli riuscì di salvare dal destino di una malattia, e quell’altro suo figlio, un canadese che si chiamava Gilles, strappato all’affetto di tanti ma soprattutto al suo da un fato inaccettabile. Accanto a suo fratello, Alfredo pure lui, che gli fu compagno nella giovinezza, ritrovò l’altro fratello, quel mantovano volante di nome Tazio, che mai volle correre per lui. Il nero della morte, ineliminabile compagna di chi sceglie di sposare il rischio e accasarsi con un’auto da corsa, Enzo Ferrari lo conosceva bene. Nero, come gli occhiali che indossava. Nero, come l’abisso imperscrutabile di un’anima inviolabile, la sua.
Enzo Ferrari amava distinguersi. Quella firma vergata in viola, l’unione cromatica del blu, il colore dell’equilibrio, e del rosso, quello della passione, era ben più di una velata stravaganza emanata dal genio, era la rivendicazione stessa di una personalità che spiccava e pretendeva il giusto riconoscimento. Se mai avessero raccontato al ricchissimo e potentissimo Henry Ford, l’inventore della moderna industria automobilistica, che avrebbe sudato più di Enrico a Canossa per conquistarsi quella firma viola in calce a un accordo finanziario per poi ritrovarsi come un pugile suonato: al tappeto, battuto, con le mani vuote e un occhio nero – pardon: viola – probabilmente non ci avrebbe creduto. Eppure Ferrari preferì alla multinazionale Ford la nazionalissima Fiat, scegliendo un partner finanziario e commerciale con una decisione che sembrò figlia del suo temperamento passionale, che mai digerì la tracotanza di certi paperoni d’oltreoceano. Dal momento che quell’unione, nel bene e nel male, dura ancora oggi, quella decisione fu sì figlia della passione, ma anche dell’equilibrio di una mente lungimirante. Blu equilibrio e rosso passione, i quali, insieme, danno il viola.
Enzo Ferrari ha ereditato un cavallino rampante, l’ha sistemato in uno scudo giallo come il colore araldico della sua Modena e, ponendolo sulle auto della sua Scuderia, le ha dotate di un’anima. Un’anima rossa. Un rosso che spicca anche nelle antiche immagini in bianco e nero perché supera i limiti fisici degli occhi e va direttamente al cuore. Spiegare il senso di una sorta di amore collettivo che supera le barriere generazionali e sociali per unire un popolo eterogeneo in un’unica fede ferrarista non è facile, senza ricorrere all’immagine della passione che tutto può e a parole come mito o leggenda, logore per quanto sono state usate in relazione a Ferrari e alla sua Ferrari. Ma questo sentimento comune esiste e ha vinto e convinto piloti, progettisti, magnati, attori e Ferrari stesso, travolto anche lui da quell’onda che aveva generato e che lo strinse fino alla fine. Forse provò a spiegarlo al Papa Giovanni Paolo II, quando gli parlò brevemente al telefono: quel giorno, Sua Santità rifiutò la papamobile e chiese di fare il proprio ingresso a Maranello a bordo di una Ferrari Testarossa. Già, anche lui.
Settanta anni fa, dalle macerie di uno stabilimento distrutto dalla guerra e da quel che restava di un Paese devastato, Enzo Ferrari fondava una scuderia di corse automobilistiche che divenne presto la Scuderia per antonomasia. Non aveva niente, se non il suo ingegno, la sua volontà, il suo obiettivo da perseguire. E una macchina rossa, che diventò un’icona.