La potenza dei motori è un elemento attorno al quale si dibatte ciclicamente. Oggi, si parla spesso di 1000 cavalli. Vale la pena ottenerli? E come?
La potenza dei motori da competizione costituisce un elemento tecnico attorno al quale addetti ai lavori, stampa e semplici appassionati dibattono ciclicamente. Troppo poca, quindi da accrescere. Troppa – quasi sempre a parer dei legislatori… –, quindi da tagliare e contenere per “ragioni di sicurezza”. Insomma, il valore della potenza genera sovente malcontenti, soprattutto quando al ribasso.
Questa determinante specifica tecnica, oggigiorno, è costantemente omessa dalle Case, dai costruttori, dai motoristi stessi, debitamente non dichiarata in quanto “dato sensibile”. Un atteggiamento, se raffrontato a quanto accadeva in passato, eccessivamente rigido nonché, alla luce delle moderne direttive e impostazioni regolamentari, spesso inutile. Pertanto, i valori delle potenze dei motori, quando non apertamente dichiarati o persino imposti – direttamente o indirettamente – dai regolamenti, sono ipotetici, verosimili ma non effettivi. Occorre attendere anni prima che qualche anima pia vuoti il sacco e renda pubbliche le specifiche dei motori, tra cui il dato della potenza.
Dal 2014, anno della introduzione dei nuovi V6 Turbo ibridi, le cronache tecniche della Formula 1 fanno spesso riferimento ai famigerati “1000 cavalli”, soglia che da sempre affascina e stuzzica l’immaginario collettivo, obiettivo a cui addetti ai lavori e appassionati ambiscono.
Oggi come ieri, motori che esprimono potenze dell’ordine dei 1000 CV rappresentano solleticanti sfide tecniche. In questa spasmodica ricerca di cavalli, infatti, ogni settore tecnologico è messo alla prova: dai materiali ai carburanti, dai lubrificanti ai sistemi di raffreddamento, passando per la mera progettazione di tutto il motore. Tuttavia, occorre fare doverosi distinguo e porre alcune domande. Iniziamo dalle domande. Vale la pena ottenere così tanti cavalli? E in che modo i regolamenti tecnici concorrono al raggiungimento di tale obiettivo?
Le odierne “power unit” di Formula 1, secondo le ultime ipotesi e misurazioni indirette, sono in grado di erogare potenze ragguardevoli. L’unità endotermica (6 cilindri in V di 90°, 1600cc di cilindrata, 4 valvole per cilindro, monoturbo, regime di rotazione limitato a 15,000 giri/minuto, portata di carburante da e oltre i 10,500 giri/minuto pari a 100 kg/h) partecipa in modo preponderante al raggiungimento di siffatti elevati valori: questi motori, infatti, si attestano attorno ai 700-800 CV (il V6 Mercedes pare esprima la bellezza di 820 CV in configurazione da qualifica). Valori, invero, straordinari, resi possibili dalle sopraffine tecnologie motoristiche oggi a disposizione.
La restante fetta di cavalli proviene dal moto-generatore elettrico, il cosiddetto MGU-K (Motor Generator Unit-Kinetic). In questo caso, la potenza massima di questa unità è fissata dal regolamento: 120 kW, pari a 163 CV. Ecco, dunque, che le attuali “power unit” di Formula 1 toccano potenze massime dell’ordine dei 900 CV complessivi o poco meno. Le migliori unità (su tutti la PU106C Mercedes) pare si attestino attorno ai 930-950-980 CV totali (picco di potenza nella mappatura più spinta). Alcune fonti, attestano la “power unit” realizzata dal Mercedes AMG High Performance Powertrains diretta da Andy Cowell (la sede è a Brixworth) ad oltre 980-990 CV globali. Difficile, però, dare valori specifici e certi. Come in molti ricorderanno, l’introduzione dei V6 Turbo aveva prodotto una forte ondata di “malcontento popolare”; in tanti, alquanto frettolosamente, denunciavano motori poco potenti e, come diretta conseguenza, scarse e opache prestazioni velocistiche e sul giro da parte delle nuove monoposto turbocompresse. La realtà degli ultimi tre anni – anche grazie al progresso delle mescole degli pneumatici Pirelli, non particolarmente durevoli ma eccelse dal punto di vista della prestazione pura, dei carburanti e dei lubrificanti – ha smentito senza appello anche i più scettici.
Occorre, tuttavia, fare una doverosa precisazione. Le attuali potenze delle odierne unità ibride di Formula 1 non sono costanti. Come abbiamo visto, il computo della potenza totale deriva dalla somma delle due potenze in gioco, propulsore endotermico + MGU-K. Il MGU-K, in quanto moto-generatore elettrico alimentato da batterie (che si scaricano nell’arco di utilizzo), eroga una potenza massima (pari a 163 CV) non costante. Altrettanto non costante, pertanto, risulterà la potenza complessiva termico + MGU-K. In sostanza, gli oltre 900 CV delle “power unit” andranno a morire dopo pochi istanti, poiché a morire sarà la potenza data dal MGU-K. Gli unici cavalli sempre disponibili nella loro – per così dire – interezza sono quelli espressi dal motore endotermico. E su questi i motoristi debbono fare affidamento.
Quanto accade in Formula 1 sembra essere, volenti o nolenti, il futuro dell’automobilismo sportivo. Non per effettiva e incontrovertibile convenienza tecnica, ma per mera imposizione regolamentare. In Formula 1, i motori ibridi sono imposti dal regolamento: motore termico accompagnato da MGU-K e MGU-H. Non c’è altra scelta. Le motorizzazioni ibride – le quali, anche nella produzione di serie, non presentano alcun tangibile vantaggio tecnico rispetto alle tradizionali motorizzazioni – vanno di moda anche in ambito competizione e come tali vengono sempre più proposte e imposte dai legislatori.
Le motorizzazioni ibride impiegate nelle competizioni (Formula 1 compresa), quindi, non servono a contenere in modo diretto e manifesto i consumi ma solo ed esclusivamente a produrre extra-potenza, da sommarsi a quella erogata dalle unità endotermiche. Insomma, un gioco perverso. I legislatori, ciclicamente, cercano di contenere le potenze dei motori termici (e quindi le prestazioni delle vetture) ma, oggigiorno, tollerano picchi di potenza superiori a 900 CV, o addirittura dell’ordine dei 1000 CV, se frutto di moto-generatori elettrici.
Una contraddizione che emerge ancor più lampante nei Prototipi di classe LMP1, la classe regina del World Endurance Championship. I Costruttori ufficiali (oggi abbiamo Audi, Porsche e Toyota) sono obbligati a presentare motorizzazioni ibride (i termici possono essere benzina o Diesel, sovralimentati o aspirati), regolamentate attraverso diverse classi energetiche (da 2 a 8 MJ/giro) e valori variabili di consumo orario, quantità massima di carburante imbarcabile e così via. Se in Formula 1 la potenza offerta dal motore termico è preponderante, nelle LMP1 ibride non è così. Infatti, si parla di 550-600 CV per le unità termiche, ma oltre 400 CV (300 kW) derivanti dai moto-generatori elettrici. La “potenza ibrida” è illimitata nei circuiti di Grado 1, al contrario limitata a 300 kW (407,8 CV) durante la 24 Ore di Le Mans, il cui tracciato non è omologato Grado 1. Dunque, anche i Prototipi LMP1 ibridi palesano potenze complessive che superano i 900-1000 CV.
Se da un lato questo nuovo corso tecnico è legittimo, percorribile e corrisponde ad una reale alternativa, esso non deve rappresentare la sola via, peraltro demagogicamente imposta e osannata. I legislatori, pertanto, debbono tornare a contemplare potenze dell’ordine dei 900-1000 e oltre CV anche senza l’ausilio dei moto-generatori elettrici. Insomma: si ritorni alle sole e classiche unità termiche “pompate” sino a toccare simili valori di potenza.
Le alternative debbono essere tutte contemplate, in F1 come nel WEC, soprattutto se – come avviene – i moto-generatori elettrici non contribuiscono all’abbassamento dei consumi ma offrono solo extra-potenza. In fondo, 1000 CV – sia che si ottengano tramite il solo utilizzo di un termico, sia che tal valore derivi dall’accoppiata termico + elettrico – sempre 1000 CV sono. Un equo, vivo, libero confronto tecnico tra vetture ibride e non ibride, allora, rappresenterebbe uno slancio regolamentare auspicabile e alquanto interessante.
Come noto, in passato, molti motori turbocompressi hanno toccato e superato la soglia dei 1000 CV. Senza l’ausilio di moto-generatori elettrici. 1000 e più CV derivanti solo ed esclusivamente dalla sola unità termica.
Tra gli Anni ’70 e i primi Anni ’90, il fermento, e non solo in tal senso, è particolarmente vivace e prolifico. La Porsche, grazie alla sua 917/30, riscrive la storia della Can-Am e delle competizioni più in generale. Il suo 12 cilindri “piatto” raffreddato ad aria di 5374cc di cilindrata e sovralimentato mediante due turbocompressori Eberspächer (boost regolabile dal pilota, il comando agisce sulle valvole waste-gate) eroga 1100 bhp (pari a 1115 CV) a 8000 giri/minuto ad una pressione massima di sovralimentazione di 1,5 bar. La coppia massima è esorbitante: 1098 Nm a 6400 giri/minuto. Il rapporto di compressione di 6,5:1. La 917/30KL tocca i 371 km/h (a Talladega tocca le 238 mph, pari a 383 km/h). Consumi, logicamente, elevati: da 85 litri/100 km sino a 96 litri/100 km.
In Formula 1, la soglia dei 1000 CV viene lambita e poi superata negli Anni ’80, all’epoca della prima generazione di motori Turbo, i famigerati 1500cc (all’epoca non esistevano vincoli circa il frazionamento, l’angolo tra le bancate, il numero dei Turbo e così via). I migliori propulsori di quel periodo erogano, in condizione gara, potenze ben superiori agli 800 CV. Sino al 1986, la pressione di sovralimentazione è libera (nel 1987, viene fissata ad un massimo di 4 bar, per scendere, infine, a 2,5 bar nel 1988). Ecco, allora, nascere una famiglia di motori divenuta ormai mitologica. Tra i 1500cc più potenti, indubbiamente, spicca il BMW M12/13, un 4 cilindri in linea sovralimentato mediante un singolo turbocompressore; rapporto di compressione pari a 7,5:1, regime massimo di rotazione pari a circa 11,500 giri/minuto. Continuamente evoluto ed aggiornato, il motore tedesco arriverà ad esprimere potenze incredibilmente elevate: 750 CV a fine 1983 in condizione gara (3 bar) e oltre 800 a 3,2 bar in qualifica, oltre 880 CV a fine 1984 (configurazione gara a 3,8 bar) e oltre 1050 CV in configurazione da qualifica (4,5 bar). Nel biennio 1985 e 1986, i BMW in configurazione da gara di Brabham, Arrows e Benetton toccano gli 860 CV a 3,6 bar, ma oltre 1200-1300 CV a 5,5 bar in configurazione da qualifica. Nel 1987, in configurazione gara, si possono toccare i 900 CV a circa 3,8 bar.
Anche i V6 Renault e Porsche (entrambi biturbo) raggiungono potenze mostruose. L’unità francese, nel 1985, riesce a toccare gli 860 CV in gara e i 1000 CV in qualifica (4,5 bar). Nel 1986, la potenza disponibile in gara sale a 900 CV (pressione tra i 3,7 e i 4 bar) e ad oltre 1200 CV in qualifica (5,2 bar). Il Renault presenta un regime di rotazione massimo compreso tra 12,500 e i 13,000 giri/minuto. Il V6 di 80° tedesco, invece, palesa potenze ragguardevoli ma non così estreme. Nel 1985, la potenza in gara è di oltre 800 CV e sfonda i 900 CV in qualifica. Nel 1986, la potenza in gara sale sino a 860 CV a 12,800 giri/minuto (3,3 bar). Nel 1987, il V6 Porsche incrementa le proprie prestazioni: 900 CV in gara (3,5 bar). Il rapporto di compressione è di 8,0:1 e il regime di rotazione pari a 13,000 giri/minuto. Ma un grande risultato si ha nel febbraio 1987: gli strumenti rilevano circa 1040 CV a 3,3 bar e a 11,750 giri/minuto. Persino lo Zakspeed 1500/4 – 4 cilindri in linea monoturbo – pare accreditato, nel 1986, di un migliaio di cavalli in configurazione da qualifica (4,5 bar).
Negli Anni ’90, gli ultimi “botti” da 1000 CV provengono dalla CART americana e dalle ultime, vere Gruppo C. Nel 1990, in occasione della 24 Ore di Le Mans, la Nissan R90Ck (Lola T90/30) condotta da Mark Blundell segna una incredibile pole-position: 3:27.020 alla media oraria di oltre 236 km/h. In quella occasione, il Nissan VRH35Z – un V8 di 90° di 3500cc di cilindrata, sovralimentato da 2 turbocompressori IHI – è “pompato” sino a oltrepassare la soglia dei 1060 CV. La velocità massima si attesta attorno ai 370 km/h.
Nel 1994, infine, è la Ilmor a tirar fuori ben 1024 CV dal proprio capolavoro ad aste e bilancieri, il 265E. Questo V8 di 72° di 3500cc di cilindrata (singolo Turbo Garrett Air Research TA74) è in grado di erogare un picco di 1024 CV a 9800 giri/minuto ad una pressione di sovralimentazione di 1,86 bar.
Quando si parla di 1000 CV, si pensa sempre ai motori Turbo. Questa tipologia di propulsori, è noto, incarnano la soluzione più immediata e redditizia circa il raggiungimento di elevate potenze, anche (e soprattutto) a fronte di piccole cilindrate. Tuttavia, la tecnica motoristica ha proposto una clamorosa via alternativa, apparentemente non percorribile: il motore aspirato. E la mente corre ai V10 di 3000cc vigenti in Formula 1 sino al 2005 (suddetto frazionamento verrà persino imposto nel 2001). Una generazione di aspirati-capolavoro le cui prestazioni appaiono mirabolanti: i migliori, all’apice dello sviluppo (2005), toccano i 950-960 CV a 19,000 giri/minuto (e oltre!). Il muro dei 1000 CV era (a parer stesso dei motoristi all’epoca coinvolti, quali Honda, Toyota, BMW) ormai obiettivo raggiunto.
Non rimane, dunque, che aspettare l’evolversi dei regolamenti e dei progressi motoristici. I 1000 CV non debbono intimorire, spaventare o mandare in paranoia i legislatori né, al tempo stesso, diventare un valore appiattito “da regolamento” e da vendere ad ogni costo per ragioni di audience. La ricerca deve fare il proprio corso, in modo genuino e naturale. I regolamenti, al contempo, dovrebbero garantire libertà di interpretazione. Una guerra a suon di 1000 CV tra Turbo, Turbo-ibridi, aspirati e aspirati-ibridi sarebbe cosa buona e giusta.
Scritto da: Paolo Pellegrini