Ci sono nazioni che possono vantare una storia lunghissima, sensazionale, e allo stesso tempo strana e curiosa in Formula 1. Gli Stati Uniti d’America rientrano senz’altro in questa categoria, e le motivazioni per includere questo tempio mondiale della F1 sono da scovare nei propri piloti. Già, perché a quasi una settimana dall’appuntamento di Austin, in Texas, vale la pena di ricordare alcuni personaggi che hanno fatto la storia di questo sport con il passaporto americano.
Il rapporto tra gli Stati Uniti e la Formula 1, riunitosi recentemente anche grazie all’acquisizione dell’impero di Ecclestone da parte di Liberty Media, è stato spesso e volentieri discontinuo. La prova di una relazione così burrascosa e ricca di alti e bassi la si può constatare proprio nel cuore e nell’animo dei piloti “Made in Usa”, e soprattutto nei numeri.
Se si guarda attentamente alle partecipazioni degli americani in F1, potrete facilmente notare che la cifra di piloti è a dir poco spaventosa: 155.
Per intenderci, i piloti britannici, che nell’immaginario collettivo rappresentano la culla della F1 e più in generale dell’automobilismo sportivo europeo, sono in leggera inferiorità numerica. Bisogna quindi partire dal presupposto che i piloti americani, ancora oggi, costituiscono il record della nazione con il maggior numero di rappresentanti in F1 dal 1950 ad oggi.
E’ bene precisare il periodo storico a partire dal 1950, perché questa è la chiave principale per spiegare un numero così alto di partecipanti. Il 1950 è infatti l’anno della costituzione del campionato mondiale di Formula 1, e la FIA vuole mettere sin da subito le cose in chiaro:
per rendere le stagioni più appetibili al pubblico internazionale, il campionato del mondo include la 500 Miglia di Indianapolis come appuntamento ufficiale. Così facendo, la Federazione spera di poter unire due culture automobilistiche in una sola stagione, correndo in Europa e negli Stati Uniti nello stesso anno.
I neonati team di Formula 1 però, una volta che si affronta la trasferta per l’ovale di Indianapolis, si scontrano con la dura realtà. Una volta arrivati negli Stati Uniti devono infatti superare le insidie di piloti e team americani già preparatissimi per la 500 Miglia. Gli americani non possono rinunciare al grande evento tenutosi in casa propria, e si presentano quindi con un numero altissimo di piloti e di team, pronti per far mangiare la polvere agli avversari europei.
L’intenzione degli americani si concretizza in pista, tanto che la supremazia degli statunitensi ad Indianapolis non viene mai messa in discussione. Parsons, Wallard, Ruttman, Vukovich, Sweikert, Flaherty, Hanks, Bryan, Ward e Rathmann: dieci piloti americani, accomunati da una vittoria a testa ottenuta ad Indianapolis. E’ quanto basta per sottolineare l’impossibilità di sconfiggere gli statunitensi nei loro confini automobilistici dal 1950 al 1960.
Con questi risultati alla mano (e con un numero davvero altissimo di partecipanti alla 500 Miglia), la FIA decide di fare un passo indietro, escludendo Indianapolis dal calendario di Formula 1 a partire dal 1961. Il circuito farà ritorno in F1 solo nel 2000, con un disegno completamente diverso per accogliere gli standard del grande Circus e con la denominazione ufficiale di “Gran Premio degli Stati Uniti”.
Con la 500 Miglia sparita per sempre dal calendario di F1, non è quindi sbagliato affermare che la vera e propria storia dei piloti americani nel vero e proprio Circus inizi dal 1960 in poi.
Già a partire da quell’anno infatti, al volante della Ferrari inizia ad imporsi un certo Phil Hill (da non confondere con la famiglia di Graham e Damon Hill), il quale vince subito in occasione del Gran Premio d’Italia. L’americano è per certi aspetti un pilota atipico. Veloce e talentuoso, Hill passerà alla storia per aver vinto un titolo mondiale di F1 con il minor numero di gare vinte: solo 3 successi, a pari merito con Mike Hawthorn.
La stagione che consacra Hill come il primo pilota statunitense a vincere un mondiale è il 1961. Sempre al volante della Ferrari, è protagonista di una lotta con il proprio compagno di squadra, il tedesco di sangue blu Wolfgang von Trips. Il Gran Premio che può mettere il punto esclamativo sul mondiale è ancora una volta quello d’Italia, ma diversamente dall’appuntamento del 1960 non ci sarà nulla da festeggiare.
A Monza, il 10 settembre, il tedesco della Ferrari entra in collisione con Jim Clark poco prima della Parabolica. Von Trips perde il controllo della sua Ferrari, scartando violentemente verso sinistra, in direzione del pubblico. Le barriere di protezione non reggono l’impatto, e nell’incidente vengono travolti diversi spettatori, che si trovavano a bordo pista per assistere alla gara. Oltre a Von Trips, perdono la vita anche 14 persone.
Nonostante il disastro e l’orrore che si vive in pista, la gara non viene interrotta. Con il tedesco fuori dalla corsa, Hill taglia per primo il traguardo, laureandosi campione del mondo nel modo più amaro.
Terminata la brevissima era d’oro di Phil Hill, gli Stati Uniti lanciano in Formula 1 altri piloti promettenti, ma tra la marea di nomi presenti solo in pochissimi riescono a distinguersi. Tra questi spicca senza dubbio Dan Gurney, capace di vincere quattro gare con tre team diversi dal 1962 al 1967, anno in cui porta sul gradino più alto del podio la Eagle per la prima ed unica volta nella storia del team. In mezzo ai successi di Gurney, nel 1965 piomba come un fulmine a ciel sereno anche Richie Ginther. L’americano, al volante della Honda, coglie una vittoria importantissima in Messico, la prima per la casa nipponica in F1 e l’unica dell’intera carriera di Ginther in F1.
Un’altra stagione positiva per i piloti americani nella massima serie è il 1973, condita dalle due vittorie di Peter Revson, entrambe ottenute al volante della McLaren. Prima ancora di Revson, però, inizia a farsi notare un altro grande talento.
Nel 1971 infatti, la Ferrari va a vincere il Gran Premio del Sudafrica. A portare la rossa di Maranello davanti a tutti è un pilota che, almeno guardando il suo nome, non ha nulla a che vedere con gli americani: Mario Andretti.
In effetti, le origini di colui che di recente è stato nominato “Pilota del secolo” sono tutte italiane. Nato a Montona, in Istria (oggi Croazia), nel 1940, Andretti vola con la sua famiglia negli Stati Uniti ancora adolescente, dopo aver messo in pratica il lavoro di meccanico. A stretto contatto con le auto in officina, la passione per gli sport automobilistici aumenta sempre di più, fino a diventare addirittura pilota. L’americano-istriano debutta così in F1 nel 1968, vincendo la prima gara in carriera nel 1971, al volante della Ferrari.
L’exploit in Africa resta anche l’unica vittoria di “Piedone” con la casa di Maranello. Cinque anni più tardi, Andretti passa alla Lotus, con la quale inizia il periodo più vittorioso di tutta la sua esperienza in F1.
Nel 1976 vince solo il Gran Premio del Giappone, passato alla storia per il ritiro volontario di Niki Lauda e per la vittoria del mondiale di James Hunt. Ma a partire dal 1977 le cose iniziano seriamente a cambiare. La Lotus di Colin Chapman si presenta infatti al mondiale con entrambe le vetture dotate di una soluzione tecnica all’avanguardia ed incredibilmente competitiva: l’effetto suolo.
Già in quella stagione Andretti si porta a casa ben quattro vittorie, incrementando a quota sei nel 1978. Il campionato ’78 non conosce rivali per la Lotus, e la lotta al titolo diventa una questione riservata solo ad Andretti e al proprio compagno di squadra, il velocissimo svedese Ronnie Peterson.
Il campionato è alla portata di Andretti, che non a caso si conferma come pilota da battere. Peterson però non si arrende, e si presenta al Gran Premio d’Italia ancora in lotta per rincorrere il suo compagno in classifica iridata. A Monza però (così come accadde a Phil Hill nel 1961 nella battaglia con il suo compagno, in uno crudele scherzo del destino), si verifica la tragedia: alla partenza infatti si forma un groviglio di vetture che coinvolge la Lotus dello svedese. La monoposto dalla leggendaria scocca nera prende fuoco, con Peterson che viene estratto apparentemente illeso dalle lamiere. In effetti le condizioni non sembrano gravissime, ma il giorno seguente, nel corso di un intervento chirurgico a Milano, Peterson muore improvvisamente in sala operatoria a causa di un’embolia.
Anche qui, con il proprio avversario fuori dai giochi, Andretti si assicura il titolo mondiale. Come fu per Phil Hill, Monza si trasformò nel luogo del silenzio e delle feste non celebrate: per un clamoroso gioco del destino, entrambi i piloti campioni del mondo, entrambi americani, non ebbero modo di poter sorridere di fronte al loro unico mondiale vinto.
Il 1978 rappresentò anche la dodicesima ed ultima vittoria di Andretti in Formula 1, ottenuta nel Gran Premio d’Olanda. La carriera di “Piedone”, invece, proseguirà fino al 1982, anno in cui venne richiamato dalla Ferrari per sostituire l’infortunato Didier Pironi, proprio in occasione del Gran Premio d’Italia. Nonostante l’età ormai non più giovanissima, l’istriano si ripresentò a Monza conquistando subito la pole position.
Mario Andretti conserva ancora oggi il record di maggior numero di vittorie ottenute da un americano in F1, ma non detiene il primato di maggior numero di partenze nella massima serie. In realtà, in questo caso si può parlare di impresa sfiorata. Andretti infatti, con le sue 128 partenze, è distaccato solo di quattro lunghezze da un altro americano molto legato all’Italia: Eddie Cheever.
Pur non avendo mai vinto un gran premio, Cheever ha comunque conquistato 9 podi in Formula 1, due dei quali ottenuti proprio a Monza nel 1983 e, soprattutto, nel 1988, gara in cui arrivò 3° dietro le due Ferrari trionfanti.
In epoche più recenti, la presenza di piloti americani in Formula 1 è andata sempre più a ridursi per svariate ragioni. In ogni caso l’ultima apparizione di uno statunitense è avvenuta proprio al termine della scorsa stagione, con un Alexander Rossi molto convincente al volante della Manor. Nel 2016 Rossi, tra l’incredulità generale, non ha trovato un sedile libero per la stagione in corso di F1, dimostrando di essere un pilota di talento andando a vincere l’ultima edizione della 500 Miglia di Indianapolis, riuscendoci da Rookie (debuttante).
Anche quest’ultimo capitolo dal sapore d’America ci fa comprendere come gli statunitensi, in un modo o nell’altro, siano sempre molto vicini alla Formula 1. Ma mai abbastanza.