Ha proprio ragione Giorgio Serra “Matitaccia”: la famiglia Minardi ha ridato la vita al circuito di Imola con il suo Historic Minardi Day, del quale si è conclusa da pochi giorni la settima edizione.
Fatevelo dire da chi, esattamente dieci anni fa, si è trovato a passare – un po’ per caso, un po’ per amore – presso l’impianto sulle rive del Santerno trovandovi un cantiere spoglio, accessi non presidiati e vecchi impianti video a tubi catodici abbandonati fra le tribune. Un’oasi di fredda mestizia cullata dagli alberi. Provai una genuina commozione quando, un anno dopo, tornai al circuito per il Memorial Senna, ritrovandolo zeppo di memorie, emozioni, rumori assordanti: zeppo di gente della Formula Uno, insomma. E da una delle tribune, da lontano, nei vecchi box, riconobbi proprio lui, Giancarlo Minardi.
Nemmeno con la mia immaginazione da romanziera avrei potuto prefigurare che, poco tempo dopo, sarei stata faccia a faccia con lui, assieme alla mia famiglia-colleganza di CircusF1, a sentirlo parlare non tanto di vecchie glorie e lancinanti ricordi, quanto di un nuovo progetto: era il 2016 e nel giugno di quell’anno si sarebbe tenuta la prima edizione del Minardi Day, di cui noi vedemmo la locandina in anteprima. Il resto è una preziosa e intensa storia di gente, passioni, eroi e macchine veloci: sette edizioni, 14.000 partecipanti solo nell’ultima, ospiti prestigiosi; nel mezzo la pandemia, la Formula Uno che ritorna – per davvero – e la certezza che abbiamo finalmente anche noi la nostra versione del Goodwood Festival Of Speed. O meglio – come sinteticamente ed efficacemente effigia la penna di Mario Donnini: il terzo Gran Premio d’Italia.
Imola ha due stagioni: una, fredda e piovosa, funestata da una brezza che ti taglia in più parti, attaccandoti addosso le bianche ciocche che volano via dalle chiome degli alberi; l’altra, immota e rovente, con la solita brezza che, lungi da fornire conforto, si incaponisce, bizzosa, nel levarti il cappello dalla testa quando ne hai più bisogno. Sembra difficile resistere in queste condizioni, ma quando partecipi a un evento come il Minardi Day scopri che la cosa più difficile è, invece, andarsene, oppure rinunciare a esserci. Dai maxischermi nell’autodromo arrivano le immagini da Zandvoort del Gran Premio d’Olanda, un esempio molto calzante di che cos’è la Formula Uno attuale, ben condito dalle solite polemiche, indiscrezioni, trionfi arancioni e miseria rossa; un mondo che buona parte di quei quattordicimila accorsi nella caldera imolese magari rinnegano e non sentono più loro, mentre quasi piangono di commozione quando scorgono spuntare dalla Rivazza l’inconfondibile sagoma della Ferrari numero 27, anticipata dall’urlo del suo motore.
Nella sala conferenze, beneficata da un’aria condizionata taumaturgica, sono presenti, fra gli altri, Mario Donnini, Emanuele Pirro e Bruno Giacomelli: si parlava dell’edizione del centenario della 24 Ore di LeMans, della necessità per la Formula Uno di Liberty Media di creare uno spettacolo redditizio rendendo le scuderie partecipanti aziende in equilibrio, del fatto che vincere non è così importante quanto non farsi bruciare dalla sconfitte – e dalle tragedie – e di farcela, nonostante tutto. Imola ce l’ha fatta, Minardi pure: lo dimostra il boato assordante che sale dalla pista e oltrepassa muri e vetrate, sovrastando parole e microfoni; un richiamo irresistibile che istintivamente ti fa tornare a desiderare di stare là fuori, immolandoti al furore rovente dell’anticiclone. Ecco, il Minardi Day, per me, porta riconciliazione: fra appassionati vecchi e nuovi, fra vecchie glorie e stelle nascenti, fra comprimari e protagonisti, fra innamorati delusi del mondo dei motori e il mondo dei motori stesso.
Le ombre si allungano sulla pit lane indorata dal sole mentre anche questa edizione del Minardi Day si avvia alla conclusione. Prima di andare via, c’è un ragazzo di 13 anni che ha riconosciuto la Ferrari F40 e vuol vederla da vicino; suo padre, che ha comprato un cappello – rigorosamente giallo e con la scritta Minardi in blu – lo inforca saldamente e decide che sì, possono permettersi di restare ancora.
Resta mestamente vero, come osservava Bruno Giacomelli, che adesso si va al Gran Premio “perchè ci si va”, perchè l’importante non è partecipare, bensì farsi vedere mentre si partecipa; tuttavia in un romantico week-end di fine agosto qualcuno ha fatto incontrare quattordicimila anime rombanti, un tredicenne e una Ferrari F40, all’ombra di un cappello giallo.
Eh sì, ha proprio ragione Matitaccia: Minardi ha salvato Imola e un pochino anche tutti noi.
Grazie e alla prossima.
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