La storia della Formula 1, parimenti a qualsiasi altra categoria automobilistica, è scandita da cicli aerodinamici dipesi tanto dalle continue e spesso repentine innovazioni apportate dai tecnici progettisti quanto, in modo altrettanto ricorrente, dai regolamenti tecnici. Questi ultimi, infatti, possono plasmare – nel bene e nel male – la veste aerodinamica delle vetture, ossia le forme stesse delle auto.
Quando si parla di aerodinamica, sovente il pensiero corre all’effetto suolo, alla deportanza, al carico aerodinamico e a tutti quei ritrovati tecnici finalizzati e volti alla ricerca di questi determinanti e imprescindibili parametri. Ma la deportanza non è tutto in un’auto da competizione. Anche la riduzione della resistenza aerodinamica (il cosiddetto Cx, coefficiente di Resistenza) ricopre un ruolo fondamentale.
È noto, infatti, che all’aumentare dei valori di deportanza (ci riferiamo al cosiddetto Cz, coefficiente di Portanza), la resistenza aerodinamica subisce un consequenziale incremento. Al contrario, la riduzione della deportanza comporta una altrettanta consequenziale riduzione della resistenza all’avanzamento. Una vettura da competizione, grazie all’elevato carico aerodinamico prodotto dai profili alari, dalla carrozzeria, dal fondo vettura e – quando presenti – dalle molteplici appendici aerodinamiche preposte a tale funzione nonché ad ottimizzare e affinare la qualità dei flussi che investono la vettura stessa, palesa, inevitabilmente, elevati valori di Cx. Il compromesso e l’equilibrio tra Cz e Cx sono continui (si parla, in questo caso, di “efficienza aerodinamica”, data dal rapporto fra Resistenza e Portanza) e spesso armonizzare questi due coefficienti è affatto semplice. Ma esistono casi in cui una delle due componenti – deportanza o riduzione della resistenza aerodinamica – risulta marcatamente prevalente rispetto all’altra: in un circuito lento e tortuoso come Monaco è il carico deportante a risultare preponderante a scapito della resistenza all’avanzamento; al contrario, un tracciato veloce come Monza esige una sensibile riduzione della resistenza all’avanzamento a scapito della deportanza.
Attualmente, solo in occasione del GP d’Italia a Monza (ad esempio, la pista di Spa-Francorchamps, sebbene veloce, necessita di maggior carico aerodinamico), le monoposto di Formula 1 possono sfoggiare esclusive configurazioni aerodinamiche particolarmente scariche atte a favorire la penetrazione aerodinamica (quindi maggiori punte velocistiche), benché, nel complesso, non si raggiungano più le estremizzazioni viste in passato. Nella sostanza, anzitutto, si tratta di scaricare le ali: riduzione della incidenza e della corda alare. Si può intervenire anche sulle sezioni, sulla apertura dei profili alari, sui diedri (ali a “cucchiaio”, svergolate, ecc.). Siffatti espedienti costituiscono il metodo più immediato affinché si attui una prima, significativa riduzione del “drag”, ossia delle resistenza all’avanzamento. Espedienti, invero, esistenti sin da quando sono stati introdotti i profili alari deportanti. A ciò, si può aggiungere la drastica eliminazioni di dati profili alari e multiformi appendici aerodinamiche.
Gli esempi relativi a interventi sulle ali, più o meno vistosi, atti a scaricare questi elementi in favore di una migliore penetrazione aerodinamica sono assai numerosi. Pochi esempi aiuteranno a capire. I GP d’Italia 1970 e 1971, in questo senso, costituiscono lampanti dimostrazioni della libertà progettuale e interpretativa all’epoca vigente e di quanto i tecnici progettisti cercassero soluzioni estreme al fine di assecondare il veloce tracciato brianzolo. La Lotus 72C gestita dal Brooke Bond Oxo Racing/Rob Walker e affidata a Graham Hill (1970) presenta una configurazione aerodinamica sufficientemente estrema: eliminazione delle semiali anteriori e ala posteriore ad un solo elemento a bassa incidenza.
Nel medesimo GP, la McLaren M14A del Bruce McLaren Racing condotta da Denny Hulme presenta due piccoli profili alari distinti e separati in luogo del più tradizionale alettone posteriore. Anteriormente, spicca la assenza delle due semiali.
Monza 1970: la March 701 gestita dal Colin Crabbe Racing e affidata a Ronnie Peterson spicca per la assenza totale di profili alari, rimossi tanto all’avantreno quanto al retrotreno. La medesima, estrema configurazione che, ad esempio, ritroviamo sulla Lotus 72C (Gold Leaf Team Lotus) di Jochen Rindt (deceduto in quel GP), sulle March 701 (Tyrrell Racing Organisation) di Jackie Stewart e François Cevert e sulla Bellasi F1 70 di Silvio Moser.
Siamo ancora a Monza, ma ora nel 1971. La bellissima Matra MS120B Equipe Matra Sports condotta da Chris Amon presenta un’ala posteriore di ridotte dimensioni che ben si raccorda alla carrozzeria posteriore, completamente ridisegnata per l’occasione in configurazione “low drag”.
La BRM P160 Yardley Team BRM condotta da Peter Gethin e la March 711 STP March Racing Team di Ronnie Peterson affiancate. La prima palesa l’assenza delle semiali anteriori ed un ala posteriore più scarica (un solo profilo in luogo della ala a fenditura comunemente impiegata), la seconda, similmente, è priva della singolare ala anteriore a pianta ellittica posta a sbalzo sopra il muso e del cosiddetto “main plane” dell’ala posteriore (ala a fenditura composta da due profili). Presente, come si può apprezzare in foto, solo il flap di ridotte dimensioni.
Tra la fine degli Anni ’80 e per tutti gli Anni ’90, i tecnici progettisti iniziano nuovamente ad elaborare vesti aerodinamiche a bassa resistenza degne di nota. Alla stagione delle Wing-Car (qui, la McLaren Mp4/1B di Niki Lauda al GP d’Italia 1982) – nel corso della quale, in virtù del notevole effetto suolo realizzato mediante il fondo vettura, si opta per una sensibile riduzione del carico prodotto dai profili alari giungendo, in molti casi, alla totale eliminazione delle ali stesse (le cosiddette monoposto “wingless”) – seguono anni in cui le monoposto di F1 presentano, fatti salvi i logici adattamenti, configurazioni aerodinamiche molto simili in ogni circuito. Configurazioni, invero, tendenti a privilegiare la deportanza (qui, siamo nel 1984, la McLaren Mp4/2 di Lauda e la Renault RE50 di Patrick Tambay sfoggiano, anche a Monza, alettoni posteriori carichi e corredati dai piccoli alettoni supplementari).
GP di Gran Bretagna 1988, Silverstone. Le Ligier JS31 condotte rispettivamente da René Arnoux e Stefan Johansson si differenziano tra loro: un alettone più carico per la vettura del francese, più spoglio e scarico per quella dello svedese.
In occasione delle prove del GP di Germania (Hockenheim), a bordo delle Williams FW12 affidate a Riccardo Patrese e Nigel Mansell, viene sperimentato un particolare alettone posteriore “low drag”. La interessante soluzione, presto abbandonata, è concettualmente simile alle ali basse e scariche adottate, specie in passato, dai Prototipi impegnati a Le Mans.
1989: qui vediamo la Ferrari 640 nelle sue due versioni (prese d’aria motore laterali o presa d’aria motore a snorkel) condotta da Nigel Mansell. Evidente la differenza di carico aerodinamico: profili più scarichi e paratie laterali di ridotte dimensioni per la 640 portata in gara a Monza.
GP d’Italia 1997, Monza. Sulla Williams FW19 di Jacques Villeneuve appare questa curiosa ala posteriore. Essa è composta solo da un’ala a fenditura (due profili separati da una fenditura, appunto) a ridotta incidenza posta in corrispondenza dell’attacco centrale dell’ala stessa. Le paratie verticali, ridisegnate, sono di dimensioni particolarmente contenute. Di fatto, il carico deportante è affidato solo ai due profili inferiori i quali, unitamente ai profili superiori, vanno a costituire l’alettone standard della iridata Williams FW19. L’estrema soluzione non avrà seguito.
Nel recente passato, anche le Dallara GP2 (oggi Formula 2) e Formula Renault 3.5 (oggi denominata World Series Formula V8 3.5) hanno presentato alettoni posteriori a basso carico (Monza) privi di profili alari altrimenti contemplati su tutti gli altri tracciati. Nel particolare, vediamo la Dallara GP2 del 2007: a Monza, i team erano soliti eliminare il flap superiore, lasciando, pertanto, solo il “main plane”; nell’altra foto, la classica configurazione ad alto carico, con alettone provvisto di flap (dove campeggia la scritta “Santander”).
Degna di menzione, la configurazione aerodinamica presentata dalla Ferrari in occasione del GP d’Italia (Monza) 1985. In questo caso, l’intervento investe tanto la fattura dell’alettone posteriore quanto il fondo vettura ed il profilo estrattore. Ecco, dunque, un ulteriore, decisivo espediente finalizzato alla riduzione tanto della deportanza quanto della resistenza aerodinamica: il dimensionamento del profilo estrattore. Ricordiamo, infatti, che la portata di un Venturi è definita dalla sua sezione d’uscita. Tradotto nella pratica: profili estrattori dalle dimensioni (altezza, larghezza e profondità) generose in presenza di tracciati ad alto-medio carico, profili estrattori di dimensioni ridotte in presenza di tracciati molto veloci. La Ferrari 156/85 è solita adottare diverse configurazioni di profili estrattori. A Monza, le suddette monoposto di Maranello affidate a Michele Alboreto e Stefan Johansson presentano un alettone posteriore le cui paratie verticali si prolungano sino a lambire il suolo. In basso, è posto un profilo deportante. Il fondo, tuttavia, non sfocia nel classico, vistoso profilo estrattore a canale unico. Esso, infatti, si interrompe in corrispondenza dei terminali di scarico (annegati nel fondo vettura) e presenta un andamento tendenzialmente rettilineo. In foto si apprezzano bene le differenze tra la 156/85 monzese e la gemella ad alto carico dotata di enorme profilo estrattore a sezione convessa.
Esistono altre vie atte a ricercare una miglior penetrazione aerodinamica. Carenare le ruote – elementi in rapido movimento capaci di generare nocive turbolenze – costituisce, senza dubbio, un espediente dalla sicura efficacia. Sin dagli albori dell’automobilismo sportivo, è stata immediatamente intuita la vitale necessità di carenare le ruote al fine di conseguire elevate velocità di punta. Gli esempi di “streamliner” sono molteplici, impossibile elencarli tutti. Dalle Auto Union e Mercedes degli Anni ’30 (la Auto Union rende operativa anche due versioni “low drag” a ruote scoperte – la Typ “Lucca” Rekordwagen (questa ha le ruote posteriori interamente carenate) e la Rennlimousine Tripoli/Avus – entrambe dotate di abitacolo chiuso ed elementi aerodinamici a bassa resistenza posti a valle delle ruote anteriori e posteriori) alla Maserati 4CL portata in gara da Luigi Villoresi al GP di Tripoli del 1939, dalla celeberrima Mercedes-Benz 196S del biennio 1954-1955 alla assai meno nota Veritas Meteor Streamliner Formula 2 (ricorrente la foto che la ritrae all’Eifelrennen 1950 condotta da Karl Kling). Senza dimenticare – prendendo in esame solo alcune applicazioni d’oltre Oceano – la Kurtis Sumar Special (streamliner provvista anche di abitacolo coperto mediante canopy a bolla di ispirazione aeronautica che avrebbe dovuto prendere parte, nella sua versione più aggiornata, alla Indy 500 del 1955 condotta da Jimmy Daywalt; la vettura partecipa alla corsa senza carrozzeria carenante e canopy), la bellissima, modernissima e incompiuta special firmata Howard Keck (la vettura interamente carenata, disegnata da Frank Coom e Jim Travis, è persino dotata di aerofreno posteriore mobile) che avrebbe dovuto debuttare in occasione della Indy 500 del 1955 nelle mani di Bill Vukovich e la altrettanto originale Mickey Thompson (conosciuta anche col nome di Sears Allstate Special) condotta da Dave McDonald alla Indy 500 del 1964. Dave McDonald, dopo aver urtato violentemente contro un muro interno, trova la morte nel corso del primo giro a seguito delle gravi ustioni riportate.
Monoposto F1 “streamliner”, invero, vengono sperimentate per tutti gli Anni ’50. Nel 1955, tre Connaught Bs prendono parte al GP di Gran Bretagna (Aintree): due gestite dal Connaught Engineering e affidate a Ken McAlpine e Jack Fairman, la terza schierata privatamente da Leslie Marr (in foto).
Siamo ancora ad Aintree, 1955. La carenata Cooper T40 Cooper Car Company di Jack Brabham precede in questa fase la Ferrari 625 di Mike Hawthorn. La Cooper, negli Anni ’50, studia diversi modelli di monoposto streamliner. Al tramonto del decennio, ecco la T51 Streamliner, vettura che non prenderà mai parte ad un GP, benché testata da Jack Brabham in occasione delle prove del GP di Francia 1959 (Reims).
Le Case italiane non stanno a guardare. Ferrari e Maserati, infatti, sono attive anche in questo particolare settore della ricerca aerodinamica, il quale, all’epoca, catalizza le attenzioni dei progettisti. GP d’Italia 1955, Monza: la Maserati affida a Jean Behra la sperimentale 250Fs (#36), caratterizzata da una carrozzeria interamente ridisegnata (muso, fiancate, retrotreno) e finalizzata alla realizzazione di elevate velocità di punta. Il pilota francese conclude la corsa al 4° posto. Nel 1956, è la Ferrari ad ideare – pur senza prendere mai parte ad un GP – una interessante monoposto streamliner. Si tratta di una particolare elaborazione della D50 (qui, la #16 testata da Alfonso de Portago nel corso delle prove del GP di Francia, Reims), provvista di muso e carrozzeria posteriore a bassa resistenza.
Interessanti, in tema di monoposto carenate o semi-carenate, i modelli schierati da Bugatti e Vanwall. Maurice Trintignant porta in gara, in occasione del solo GP di Francia 1956, la Bugatti T251, monoposto che presenta un muso avvolgente che va a carenare parzialmente le ruote anteriori. Nel 1957, è la britannica Vanwall a presentare una originale elaborazione di Formula 1 “low drag”. Ci riferiamo alla VW6, monoposto apparsa in occasione delle prove del GP di Reims, in quell’anno corsa non valevole per il Mondiale Piloti di Formula 1. Il GP si disputa il 4 luglio 1957. Stuart-Lewis Evans e Roy Francesco Salvadori (in foto, la #24 affidata proprio al britannico di origini italiane) testano la particolare VW6, vettura che, per il peso eccessivo e gli scarsi incrementi velocistici, viene ben presto scartata e accantonata in favore della tradizionale VW5. La monoposto presenta un frontale avvolgente e carenante integralmente le ruote anteriori; posteriormente, invece, le ruote sono lasciate scoperte, fatti salvi i singolari passaruota superiori, a carenare parzialmente le ruote stesse, ben raccordati alla “gobba” posteriore.
Abolite le monoposto Formula 1 “streamliner” e similari, i tecnici progettisti abbandonano istantaneamente gli estremi ritrovati tecnici volti alla ricerca della massima penetrazione aerodinamica. Solo negli Anni ’70, la Formula 1 riscopre – almeno in parte – quei concetti che, sino agli Anni ’50, avevano arricchito il panorama tecnico-aerodinamico delle categorie a ruote scoperte. In questo importante e determinate decennio, infatti, la F1 riscopre i musi larghi ed avvolgenti, la cui funzione è anche quella di schermare – compatibilmente ai vincoli regolamentari – le compatte ruote anteriori in voga negli Anni ’70. Un benefico aiuto alla resistenza all’avanzamento e ai flussi che investono tanto l’avantreno quanto il retrotreno, questi ultimi diretti anzitutto verso l’ala posteriore. Sempre più pressante, infatti, la necessità di sposare e conciliare le principali e al contempo contrastanti esigenze aerodinamiche: riduzione della resistenza all’avanzamento e ricerca della deportanza. La Tyrrell P34 (1976-1977) – la famosa “6 ruote” progettata da Derek Gardner – estremizza questo concetto. All’avantreno, infatti, spiccano le quattro ruote (2 per lato) di dimensioni assai ridotte: cerchi da 9” x 10” (22,8 cm di larghezza, 25,4 cm di diametro), pneumatici Goodyear da 8,5/16-10 (misure in pollici, equivalenti a 21,5 cm di sezione, 40,6 cm diametro, cerchio da 25,4 cm di diametro). L’adozione di ruote più piccole, debitamente carenate mediante un muso avvolgente preposto anche alla realizzazione di carico deportante, consente anzitutto una riduzione della sezione frontale. Questo principio, ma focalizzato al retrotreno, è alla base della Ferrari 312 T6, monoposto sperimentale comparsa nel 1977 e dotata di 4 ruote posteriori (2 per lato gemellate) di dimensioni pari a quelle anteriori (9,2/20-13: 23,3 cm di larghezza, 50,8 cm di diametro, cerchio da 13 pollici, pari a 33 cm). Scopo di tale soluzione è ridurre la sezione frontale (gli pneumatici posteriori, all’epoca, presentano le seguenti misure: 16,2/26-13, pari a 41,1 cm di larghezza, 66 cm di diametro, cerchio da 13 pollici) e limitare i movimenti e le “deformazioni” trasversali e longitudinali dello pneumatico mediante l’adozione di gomme più ribassate e quindi più rigide (gli pneumatici tendevano a centrifugare alle alte velocità). L’interessante sperimento non avrà seguito, in quanto la larghezza massima della 312 T6 supera il limite regolamentare.
Con la 312 T2, la Ferrari sperimenta (ma senza seguito in gara) alcune soluzioni atte a ridurre le turbolenze generate dalle ruote anteriori. In foto, la 312 T2 svelata in occasione della presentazione e la 312 T2 apparsa nel corso del GP di Francia del 1976: la prima sfoggia vistose carenature integrate alle prese d’aria di raffreddamento dei freni, la seconda elabora la suddetta soluzione mediante appendici sì integrate alle prese d’aria di raffreddamento freni ma meno avvolgenti e carenanti.
Attualmente, è possibile apprezzare estreme configurazioni “low drag” solo ed esclusivamente (e diremmo tradizionalmente) nella statunitense IndyCar e in occasione della 24 Ore di Le Mans. Gli ovali veloci, infatti, richiedono configurazioni aerodinamiche particolarmente scariche, utili al raggiungimento di velocità di punta superiori ai 360-370 km/h. Anche a Le Mans, circuito che presenta lunghi tratti rettilinei, possedere una ottimale penetrazione aerodinamica risulta vitale e spesso determinante. Ecco, dunque, l’adozione di particolari e specifiche carrozzerie a bassa resistenza. Degno di menzione, relativamente al recente passato, l’alettone posteriore portato in gara dalla Toyota nel 2014 (TSo40 Hybrid LMP1); l’elemento aerodinamico, infatti, subisce una flessione controllata al crescere della velocità e, quindi, del carico aerodinamico. La flessione dell’ala nel suo complesso (dai profili alle paratie verticali stesse, passando per le strutture laterali regolamentari che seguono l’andamento del fondo vettura – poste ai lati del profilo estrattore posteriore, alle quali i tecnici Toyota hanno connesso i sottili prolungamenti delle paratie verticali dell’alettone posteriore) realizza una riduzione dell’incidenza alare, quindi una riduzione dei valori di Cz e Cx, vantaggiosa ai fini di elevate velocità di punta. Facendo un passo indietro ma rimanendo in tema di Le Mans Prototype, curioso l’alettone posteriore “low drag” sperimentato dall’Oak Racing sulla Pescarolo 01 in occasione della 24 Ore di Le Mans 2011. Il flap dell’ala posteriore, infatti, presenta delle semisfere poste lungo l’estradosso ed un nolder (noto anche col nome di Gurney flap) “a margherita”. Una singolare veste intesa a preservare l’efficienza dell’ala garantendo, al contempo, una riduzione della resistenza aerodinamica.
Da anni, la Formula 1 ha abbandonato configurazioni aerodinamiche a bassa resistenza particolarmente ardite, privilegiando, pertanto, la deportanza. In effetti, i tracciati contemporanei – anche quando veloci – richiedono elevati valori deportanti. Il DRS – acronimo di Drag Reduction System, il flap mobile dell’ala posteriore – costituisce oggigiorno il solo espediente realmente “estremo” inteso ad una sensibile riduzione della resistenza aerodinamica. Un dispositivo, tuttavia, mal concepito e regolamentato in quanto finalizzato esclusivamente (in gara) ad innalzare il numero dei sorpassi (i quali, inevitabilmente, scadono di valore) in punti prestabiliti del tracciato. Non solo, infatti, l’aerodinamica mobile – in ogni suo sfaccettato spettro – andrebbe incentivata e contemplata su larga scala, ma lo stesso DRS andrebbe liberalizzato nelle modalità e tecniche d’uso. Ricordiamo, a tal proposito, che nel 2009 la FIA introduceva il flap mobile dell’ala anteriore: un profilo ad incidenza variabile e regolabile dal pilota la cui escursione massima era pari a 6° e che, nelle intenzioni dei legislatori, avrebbe “favorito i sorpassi” e lenito “l’effetto scia”. Il sistema veniva ben presto accantonato.
Abbiamo citato, in precedenza, la Sumar Special, monoposto destinata alla 500 Miglia di Indianapolis provvista di carrozzeria integrale e canopy a bolla di chiara impostazione aeronautica. Coprire l’abitacolo costituisce, evidentemente, un modo efficace per migliorare la penetrazione aerodinamica. Se oggi – secondo una visione eccessivamente limitante e “buonista” – un abitacolo coperto (o parzialmente protetto mediante un vistoso “parabrezza” frontale; ci riferiamo alle due interpretazioni di shield testati rispettivamente da Red Bull e Ferrari) è sinonimo esclusivamente di “sicurezza”, in passato era sinonimo di “bassa resistenza aerodinamica”. Vanwall, Brabham e Protos sono i costruttori che hanno sperimentato abitacoli coperti, integralmente o parzialmente, andando così a riattualizzare idee già proposte decenni prima. In occasione delle prove del GP d’Italia 1958 (Monza), la Vanwall VW5 di Stirling Moss viene dotata di canopy integrale. La soluzione marcatamente “low drag” viene scartata: il confort del pilota, a causa delle forti vibrazioni e delle alte temperature raggiunte all’interno dell’angusto cockpit (nonostante le feritoie di ventilazione), si rivela proibitivo. Nel 1967, ancora a Monza, Jack Brabham testa una speciale versione della BT24, dotata, cioè, di canopy non integrale con funzione aerodinamica. Soluzione anch’essa scartata dallo stesso pilota australiano. Simile a quanto fatto dalla Brabham, la proposta della Protos F2 gestita dal Ron Harris Racing, vettura di Formula 2 progettata da Frank Costin la quale, nel 1967, prende parte al GP di Germania (Nürburgring) di F1 e F2 (i piloti sono Brian Hart e Kurt Ahrens). Un canopy non integrale caratterizza la interessante vettura. Nel giugno 1985, a Silverstone, Alain Prost testa uno speciale “aeroscreen” a bordo della sua McLaren Mp4/2B. Molto simile ai cupolini testati negli Anni ’50 e ’60 (anch’esso era provvisto di feritoia centrale), viene scartato: parimenti a quanto lamentato da Brabham nel 1967, Prost riscontra una non ottimale visibilità (visuale eccessivamente deformata). In ultimo, citiamo esempi di formule minori provviste di “aeroscreen”, peraltro ottimamente integrati alle forme dell’auto: la Caracal Formula Vee portata in gara da Bill Bowman e la Prowess Formula Ford 1600, due monoposto tanto piccole quanto estreme!
Tanti sistemi ed espedienti, pertanto, ancora in uso o che potrebbero rientrare in gioco qualora (ipotesi, oggigiorno, remota) la Formula 1 nel suo complesso (dai legislatori della FIA ai Team) decida di aprire i cancelli regolamentari. La fantasia galoppa nei cervelli dei numerosi disegnatori, in grado di deliziare il palato degli appassionati con render più o meno efficaci di futuristiche Formula 1 carenate ed estreme. Tramutare queste idee in realtà, senza dimenticare quanto fatto già in passato, può fare solo che del bene alla Formula 1. Soprattutto, è necessario che la F1 stessa contempli nuovamente circuiti estremamente veloci, in un alternarsi di prestazioni e configurazioni, da affiancare a tracciati più guidati e lenti. In questo senso, non v’è dubbio, la scuola americana – indissolubilmente fedele e legata ai tracciati stradali, cittadini e ai velocissimi ovali – potrebbe suggerire alla “rivale” F1 nuove vie evolutive tali da rinvigorire l’importanza delle configurazioni aerodinamiche smaccatamente “low drag”. Nel 2018, rientrerà in calendario il GP di Francia. Teatro dell’importante evento, il circuito di Paul Ricard-Le Castellet. Il leggendario rettilineo del Mistral – che la F1 non impiega più nella sua interezza dal 1986 e sino al 1990, anni in cui il GP si disputa sul “corto” di 3,813 km anziché sul “lungo” di 5,810 km, quest’ultimo utilizzato dalla F1 dal 1971 al 1985 – verrà spezzato da una variante: se le premesse sono queste…
Scritto da: Paolo Pellegrini