Se dovessi giudicare il MiamiGp con il metro di un talent show, questa sarebbe la mia risposta. E – intendiamoci – già il fatto di aver dovuto accostare uno sport storico, fatto di coraggio, intelligenza e abnegazione, a un prodotto televisivo che fagocita le speranze di giovani artisti – o presunti tali – di trovare la loro strada inseguendo un sogno, beh, dà la misura di quanto sia cambiato il punto di vista negli ultimi anni. Questo – per giunta – proprio in concomitanza con il quarantesimo anniversario della morte di Gilles Villeneuve, una figura capace di nobilitare anche quanto di meschino e tragico c’è e c’è sempre stato in Formula 1, tanto per farci del male.
Ed eccoci, quindi, a parlare del perché un evento così carico di aspettative come un Gran Premio in una nuova pista si sia trasformato in una serie di no, sportivi e non.
Cominciamo dalla fine. La scena inde…scrivibile di un podio “ospitato” ai piedi di un monumentale stadio del football, in modo che la prima cosa che si vedesse fossero non i piloti, non il maxischermo che mostrava gli highlits della gara, non la macchina vincitrice – scusami, Città del Messico, allora fui troppo severa! – bensì la colossale statua di Dan Marino, legenda della NFL, alla quale auguro lo stesso destino dell’omonimo colosso di Nerone, talmente celebre da far sì che l’Anfiteatro Flavio sia passato alla storia come Colosseo perché vi sorgeva davanti.
Ora: davvero vogliamo far passare il popolo che si assiepava lungo i guard-rail assassini del Watkins Glen per inneggiare a gente come Stewart e Lauda, che trascinò col suo sostegno Mansell che spingeva la sua Lotus a Dallas, che onorò il prematuramente scomparso Jim Clark con un tributo commovente e che da sempre accoglie con rispetto e ammirazione i piloti di Formula 1 che vanno a correre nel loro Paese, sia una mandria al pascolo che “senza metafore footballistiche non ce la fa”, parafrasando una pubblicità molto nota sui nostri schermi?
Davvero per far accorrere pubblico statunitense, nella terra che da una decina d’anni ospita, nel COTA, gare della massima serie su una pista tutto sommato gradevole, bisogna far sventolare sotto al loro naso che incontreranno questa o quella celebrità della NFL o della NBA e che, per una somma non certo irrisoria, potranno assistere a una gara automobilistica comodamente sdraiati sul ponte di un vero, fintissimo, yacht extralusso? Dopo una gara i cui ultimi giri sono stati tiratissimi e densi di pathos, con dei protagonisti all’altezza di commenti entusiastici, il premio per la Formula 1 è una cerimonia del podio in cui i piloti devono mascherarsi con caschi da football e trovarlo divertente. Cosa ci aspettiamo, del resto, dopo aver accettato di correre in un budello ricavato dal parcheggio dello stadio dei Miami Dolphins?
C’è stato un delitto: chiamate Horatio Caine! Giungerà sul posto direttamente in overcraft dal canale che costeggia la pista, con gli Who in sottofondo, con Brundle che lo scambia per Sonny Crockett. Hanno ucciso la Formula 1, il suo messaggio, la sua natura, il suo retaggio per il più antico e impietoso dei motivi: il denaro. E lo show.
A margine: ridicolizzare regole stupide è più che giusto, anzi. Ma non sarebbe stato più giusto – e anche condivisibile – porre l’accento sulle sacrosante rimostranze di piloti come Norris e Sainz, che lamentavano l’assenza di barriere Tepco in alcuni punti molto pericolosi della pista, invece di far passare alla cronache questa gara come “il Gippì dei braccialetti di Hamilton e delle mutande di Vettel”?
Per cui per me è no. No al layout della pista, no allo spettacolo offerto, no a certi bias sulla sicurezza.
Però dai, nel 2023 andiamo sulla strip di Las Vegas. Tanto “il Circo cambierà città, anche se non è più la stessa cosa.”